Un mondo che vuol sembrare bello

Dodicesima edizione della lucida follia di Gaetano Coccia, Francesco O. De Santis e Antonella Parrella: il Festival Troia Teatro, luogo concreto e ideale dove «la cultura è uno strumento attivo e l’atto artistico ha […] il dovere di provocare il pensiero».

Là dove i Monti Dauni sposano l’Alto Tavoliere e la Puglia nasconde uno dei suoi tanti gioielli, la città di Troia, da ben dodici anni si svolge un festival emblematicamente dedicato all’«incontro tra le arti, fusioni delle lingue, incrocio di culture».

Un «festival vero, come lo si intendeva una volta: appuntamenti concentrati in pochi giorni, prime assolute, debutti, produzioni create per il Festival, la città come luogo di spettacolo», un contesto in cui le arti perfomative si incontrano alla «ricerca di nuove forme artistiche, di nuovi linguaggi, di nuovi punti di contatto tra artisti e fruitori dell’arte, una ricerca artistica libera e senza costrizioni», come a costituire un munifico crocevia espressivo, tanto alto nelle intenzioni quanto ambizioso nelle finalità.

È il progetto di un festival «perfettamente in armonia con la popolazione di Troia» (leggi l’intervista di Francesco Chiaro) che ormai da oltre una decade innerva senza invasività le abitudini di un piccolo comune, trovando una cittadinanza ben disposta a essere attivata alla partecipazione da parte di organizzatori cui, allora, riconosciamo quale primo e non scontato merito quello di esser riusciti a coinvolgerla in questa reale e non chiacchierata chiamata alle arti.

Un borgo splendido, la cui fondazione risale alla leggenda, attraente per la collocazione architettonica e paesaggistica, e che abbiamo scoperto in grado di assicurare valore aggiunto alle sue molteplici rappresentazione e «tante attività collaterali tutte gratuite» (i documentari dell’HANDMADE doc fest a cura di Maurizio Borriello, l’arte di strada, Talking About – incontro tra spettatori e artisti a cura di Teatri 35, laboratori per adulti e bambini). Nonostante l’ambizione audace e visionaria dei suoi ideatori, Festival Troia Teatro non sembra affatto anelare ai contorni dell’utopia; esso, piuttosto, è un evento non lontano dalla realtà perché consapevole di quanto sia arduo il connubio (e, allo stato dell’arte, non del tutto raggiunto all’unisono) tra la qualità del progetto (la «resistenza alla logica della cultura passiva, dei raduni di grandi masse in serate di consenso, degli scambi, delle autocelebrazioni, di vetrine senza qualità») e la sua effettiva realizzazione.

Assistiamo alle ultime due giornate di programmazione con in scena il futuro vincitore del Premio Eceplast, Verso Une Flèche della Compagnia Tecnologia Filosofica/Il Corpo Rituale, e l’atteso Panenostro della Compagnia Ragli.

Particolarmente suggestivo il tema di questa edizione, il rito nella sua accezione più vasta e, volendo, meno specialistica. Non solo «riti di passaggio, riti di guerra, riti di iniziazione, riti individuali e riti collettivi, riti pubblici o privati», ma anche «una consuetudine, una procedura, una necessità, il thè, la sigaretta, la playstation.». Il rito «come caduta o come rifondazione […] come rappresentazione, come catarsi, come messa in scena […] come trasfigurazione del reale, come possibilità di liberare le energie della collettività».

Uno spettro di riflessione, dunque, ampio e perfetto per Verso Une Flèche, «installazione performativa sull’archetipo della freccia» che, nata privata per un solo individuo, è stata presentata frontale e pubblica nel Cortile del Palazzo Vescovile, una location inopportunamente turbata dai rumori degli adiacenti locali e, di conseguenza, non particolarmente funzionale per l’auspicato invito della Compagnia Tecnologia Filosofica/Il Corpo Rituale a «prendere parte all’esperienza».

Una scena essenziale (sullo sfondo un paglione intrecciato come bersaglio e in primo piano un cumulo di stracci da cui, nei momenti conclusivi, emergerà con primordiale e precaria gestualità la «complicità di Sara Girardo») e uno sviluppo breve e lineare hanno caratterizzato Verso Une Flèche quale libero ed evocativo disegno di un ambiente ancestrale. In esso, prima dell’abbandono agli indefiniti «paesaggi sonori di pensieri e parole» di Paolo De Santis, Francesca Cinalli dipanerà un gioco acustico e simbolico – rispettivamente – con una lunga foglia di palma e una freccia per così cercare di abbattere i grandi ostacoli che la (de)formazione della razionalità occidentale (la dialettica tra i concetti, il primato della conoscenza, etc) pone preventivamente alla percezione di quell’alterità orientale cui la coreografia fa riferimento, ossia l’apertura al vuoto come precondizione per «una meditazione sul maschile e il femminile; chi è la vittima, chi il carnefice, l’istinto primordiale della caccia; il tallone di Achille; la freccia di Eros; queste ed altre suggestioni».

Al netto delle sbavature di una grammatica incerta nell’essere criptica nelle coreografie, ma didascalica nei costumi, nella scenografia e nel finale (nonostante il sontuoso e straziante estratto dall’Oratorio di Alessandro Scarlatti), nonché timida nel porsi con poca profondità all’interno della domanda fondamentale da cui sorge («sono io che tendo l’arco o è l’arco che mi tende alla massima tensione?», Lo Zen e il tiro con l’arco di Eugen Herrigel), Verso Une Flèche riesce comunque a esibire più le potenzialità che le criticità della propria poetica, anche se l’aver riservato a un solo spettatore l’ascolto reale (tramite cuffie come da performance originaria) ha finito per consegnare al restante pubblico un grave senso di esclusione e marginalità.

Perplessità strutturali accompagnano invece Panenostro, spettacolo vincitore del concorso Per Voce Sola del Teatro della Tosse di Genova.

Non è certo una pregiudiziale avversione al teatro di narrazione e di parola a muovere le (personalissime, of course) note negative di chi scrive: dal fantastico teatro dell’immaginifica Silvia Frasson all’amore senza compromessi del Don Milani di Luigi D’Elia, dallo straordinario Gente come uno di Manuel Ferreira al perfettibile Alfredino di Fabio Bando, la lista della tradizione di qualità, se non proprio delle perle del genere, potrebbe tranquillamente continuare.

Panenostro è la storia di Giuseppe, un semplice e naif figlio e nipote di panettiere. Giuseppe, milanese ma orgogliosamente originario della Calabria, ovviamente ama fare il pane. La sua vita si identifica con la ritualità dell’impasto, dalla scelta degli ingredienti alla cura dei clienti. È dolcemente innamorato di Lisetta, al punto da dedicarle e nominarle un pane di propria invenzione. La sua vita è lo stereotipo di chi, seguendo pedissequamente le orme patriarcali, si alza presto, va al lavoro, progetta una bella casa e sogna una vita tranquilla in compagnia del pane e di Lisetta.

Al termine di questa netta, interminabile e pedante introduzione al personaggio, cui Andrea Cappadona dona (sic!) un italiano con costante intonazione calabra e sporadiche sentenze dialettali, Panenostro comincia a lasciar intravedere il proprio lato oscuro.

Il quartiere, i propri maestri (padre e nonno), il lavoro, ovviamente, non sono come Giuseppe li aveva sempre immaginati e Milano non è affatto una capitale morale. Dopo aver vissuto «senza falsità, ingenuo», Giuseppe, infatti, viene a sapere che «papà pagava e pure nonno pagava» e la sua «umiltà, palesata con la sottomissione remissiva all’imposizione malavitosa, lo rende inconsapevole finanziatore del meccanismo della onorata ‘ndrangheta calabrese radicata al nord». La reazione è dunque quella di chi decide senza aver realmente scelto, quella del silenzio di chi non denuncia e si fa connivente, accettando non solo di pagare un pizzo mensile, ma anche di vedere cambiate le proprie abitudini produttive (es. la scelta della farina da comprare).

Ma non è per questo che Giuseppe ci sta parlando dalla cella di un carcere. Come ampiamente prevedibile, il suo delitto, infatti, è ben altro. Volendo nobilitare la scelta registica, si potrebbe attribuire un senso di hybris al gesto con cui, di fronte all’ennesima prepotenza degli uomini d’onore, non riuscendo a sopportare l’affronto rivolto a quel pane che rappresentava ciò e colei che più amava al mondo (la Lisetta), Giuseppe decide di farsi giustizia con le proprie mani, infornare letteralmente i due aguzzini e, quindi, favorire il proprio arresto da parte di uno zelante commissario di polizia (suo storico cliente). Così come una componente tragica potrebbe essere (ben) nascosta nella scoperta che a essere spezzata da Giuseppe non sarebbe stata la legge degli uomini, ma quella della vita, e che al suo gesto di ribellione sarebbe seguita una punizione peggiore del male curato («soccombere alla giustizia per avere ucciso, lascia un debito: non avere giustizia»).

Purtroppo, nulla di autenticamente tragico potrà essere individuato in questo Panenostro che, pur essendo lodevole e sostenibile negli ideali di teatro civile e antimafia, si rivela retorico oltre i livelli di guardia e, di conseguenza, pesantemente moralistico. La ‘ndrangheta confusa (speriamo per colpa del caldo) in un passaggio con Cosa nostra, l’assenza di una autentica ritualità del pane che non fosse consegnata alla prolissa restituzione verbale (e a piccole scaramucce con farina e panettoni senza uvetta presentati in scena), la discutibile connotazione linguistica di un milanese se non di terza, quantomeno di seconda generazione (sarebbe stata ben più credibile una parlata lumbard), la preoccupante assenza di variazioni nel tono, negli sviluppi narrativi, nelle soluzioni di regia rispetto al canone di parola e la conseguente debolezza del climax e l’incapacità di destare l’attenzione sono elementi che concorrono all’edificazione di un contesto del quale ad allarmare non è tanto la noia per uno spettacolo che non si interessa del reale dal punto di vista teatrale ma solo letterale, quanto proprio quell’inconsistenza artistica con cui rende incredibilmente una macchietta il proprio contenuto.

Non possiamo, però, salutare questa edizione del Festival Troia Teatro senza un’ulteriore riflessione a margine. Perché, nonostante il relativamente poco tempo vissuto in loco, un aspetto è apparso chiaro ed evidente. Non sono mancati nomi di spessore, così come i carneadi per il grande pubblico, e la bellezza si è alternata alle delusioni; tuttavia il senso di un festival non può essere compresso alla sua programmazione o alla sua organizzazione, aspetti (in particolare quest’ultimo) su cui siamo convinti che Teatri35 continuerà a ragionare per rilanciare virtuosamente la propria azione di promozione di una cultura che possa parlare e agire nella società dall’interno e che sappia rinnovarsi senza piegarsi a vani e astrusi intellettualismi.

Giornate tirate fino a tardi in compagnia di una bella comunità finalmente di non sole maestranze e con cui far evadere la conversazione dalla tematica strettamente teatrale, non devono far passare in secondo piano chi (da Antonella a Monica, da Aldo e Alessandro a tutta l’allegra brigata di volontari sono solo alcuni esempi) non sta sotto le luci della ribalta e non compare a caratteri cubitali nei comunicati stampa, negli articoli di giornali o delle riviste web, ma risulta fondamentale per la connotazione ecologica di una atmosfera di festa perfettamente riuscita e nel contribuire a un festival ormai pronto, ormai adolescente, a ritagliarsi un posto al sole nel panorama nazionale.

Perché, così come abbiamo ammirato tante piccole grandi occasioni andare in direzione ostinatamente contraria rispetto all’ingenua – quando non strumentale – convinzione che esistano luoghi esclusivi perché istituzionali (da Ad Arte a Calcata alla prima edizione dell’ormai terminato corso di Andrea Cigni a Chiusi, da Collinarea al Mittelfest, da Santarcangelo a Volterra), anche a Troia viene efficacemente promossa la volontà affatto banale che «il teatro si possa fare ovunque e […] in contesti sempre diversi».

L’assenza di voli pindarici, la disponibilità degli artisti, la partecipazione della collettività, di fatto l’attenzione ai legami tra pubblico e territorio, restituiscono alcune delle caratteristiche salienti di un progetto che speriamo possa avere gambe ancora più lunghe e robuste di quelle mostrate finora e su cui Teatri35 sta investendo senza sosta; caratteristiche che, forse, potranno far storcere il naso ai radical che pontificano disfacendo le tele altrui senza aver mai provato a farne una propria, che vedono solo la Cultura con la maiuscola e a propria immagine e somiglianza, sempre pronti a fare la voce grossa in attesa della propria torta da mangiare (magari in termini di workshop o visibilità), ma che lasciano assolutamente ben sperare per il futuro e la mission di questo piccolo, grande festival.

Festival Troia Teatro XII edizione è andato in scena
Troia, Foggia
location varie
organizzato dall’U.G.T. (Unione Giovanile Troiana), A.c.t! Monti Dauni Associazione Culturale & Turistica e Teatri35 Ass. Cult. Teatrale
con il patrocinio della Regione Puglia e del Comune di Troia

Verso Une Flèche
di Francesca Cinalli e Paolo De Santis
con Francesca Cinalli e la complicità di Sara Girardo
paesaggio sonoro Paolo De Santis
produzione Compagnia Tecnologia Filosofica/Il Corpo Rituale

Panenostro
con Andrea Cappadona
testo e regia di Rosario Mastrota
assistente alla regia Dalila Cozzolino
scenografia di Marco Foscari
produzione Compagnia Ragli