L’insostenibile leggerezza del bastare

Recensione Odissea di Omero. L’Odissea di Omero è al Tempio della Concordia, ma il contesto può essere sufficiente a salvare un allestimento ambizioso nella presentazione e controverso nella realizzazione?

No, lo scenario è incantevole, ma non basta né agli artisti, né agli organizzatori per assicurare il successo di un’operazione potenzialmente straordinaria. Stefano Santospago è infatti un Odisseo “possente”, ma la sua ingessatura performativa non passa inosservata o indolore; d’altra parte, sotto il profilo logistico, la comunicazione non è mancata, ma non ha brillato in chiarezza, per esempio non ricordando di portare cuscini per la seduta o non dando la possibilità di riceverli all’ingresso, una pratica che è ormai standard nei cosiddetti Teatri di pietra (Ostia antica, Segesta, etc) e che avrebbe certamente contribuito al comfort, specialmente data l’ambientazione inconsueta. Anche il ritardo nell’inizio, pur minimo, ma combinato con un maldestro uso delle luci, ha inevitabilmente inficiato l’effetto dell’alba teatralizzata, minando il momento del sorgere del Sole alle spalle del Tempio.

Al netto delle questioni organizzative, il transito verso il Tempio della Concordia immerso nel buio è un “sogno” che si fa fatica a tradurre in parola. Le pietre millenarie come platea, le colonne a fungere da palco e l’intorno a risuonare in un’esperienza che non è archeologica o spettacolare, ma trascende nell’antropologico presentano al pubblico una scena ai limiti della realtà. L’impatto è sconcertante, ma immediatamente qualcosa stona con l’autenticità del luogo ed è Ulisse che entra come un vecchio claudicante accompagnato da registrazioni distorte di musiche ad altissimo volume. Il contrasto è stridente e, onestamente, inspiegabile, oltre che fastidioso.

Odissea di Omero si snoda in un flusso di coscienza, tra memorie e anticipazioni, narrando vicende che motivano lo stato d’animo di un tormentato Ulisse e che l’adattamento concentra quasi interamente sulla famosa guerra, “volando” invece sui momenti dal ritorno dell’eroe nella sua Itaca. La regia gioca sul contrappunto tra la presenza del protagonista ai piedi del Tempio e quella di quattro interpreti al suo interno – che, via via, sararanno i vari Achille, Menelao, Elena, Penelope, etc. – per drammatizzare il dialogo tra i due livelli attraverso le loro capacità recitative.

L’assenza di Lo Monaco si è sentita, forse troppo, visti i continui inciampi di Santospago sul testo e l’insostenibile enfasi della sua vocalità, ma è stato l’intero comparto maschile a patire la responsabilità del luogo. Tanta passione, troppa, nell’intenzione di restituire nell’emotività la grandezza dell’epopea omerica con una recitazione impostata ed eccessiva, mentre molto più a suo agio e credibile si è trovata Barbara Capucci, che ancora una volta, dopo le belle prove ne L’uomo dal fiore in bocca, l’ultima recita e in Ovidio, il poeta relegato. Metamorfosi dell’esilio, continuamo ad ammirare nella non indifferente capacità di dare sostanza e consapevolezza al proprio ruolo senza inutili manierismi.

L’effetto di lasciare al Tempio il “semplice” ruolo di quinta per focalizzare l’attenzione sulle parole è dunque riuscito solo in parte dal momento che l’immersione nel racconto è stata attenuata dalla mancanza di qualità tecnica (audio e luci) e da discutibili scelte estetiche. Se, nel loro complesso, le musiche originali di Arcidiacono hanno sofferto di un disallineamento totale con il contesto, trasformandosi in una presenza martellante e fuori luogo, il ritmo incessante delle sue composizioni ha letteralmente soffocato l’opportunità di creare atmosfere e sottolineature emotive che si sarebbero potute integrare in modo più organico con il narrato, oltre che con lo spazio.

Dal punto di vista culturale, lo spettacolo ha evitato di affrontare con spirito critico il maschilismo intrinseco all’opera omerica originale, preservandone le sfumature patriarcali (dall’essere moglie trascurabile di Penelope all’onore offeso di Menelao e di Ulisse, e non la violenza di Elena, come motivazione della guerra), mentre da quello estetico, l’allestimento ha palesato pesanti limiti di originalità nella stessa scelta di una lettura drammatizzata che sembra riproporre uno schema ormai consolidato e rassicurante, ma stantio e monotono. In attesa di assistere alle prossime Albe della Savatteri Produzioni (ma riflettendo sulla già vista Antigone del regista agrigentino), ci si chiede se davvero non si riescano a proporre modalità più stimolanti e innovative di fruizione teatrale del Parco Archeologico che, magari, prevedano un ripensamento totale dell’ecologia scenica, ovviamente nell’assoluto rispetto del contesto, come per esempio le grandiose installazioni autenticamente site-specific e aperte all’esperienza spettatoriale della Projectxx1 di Riccardo Brunetti.

Odissea di Omero si è dunque dimostrata un’ambivalente esplorazione dell’epopea di Ulisse, incantevole per la location e sofferta per l’esecuzione tecnica e per un inteatramento non all’altezza. Tuttavia, quello che perplime e su cui ci si aspetterebbe un ulteriore salto di qualità è l’operazione complessiva perché investe l’idea dell’orizzonte in cui si immagina Agrigento nel suo essere Capitale della Cultura 2025 e oltre. Una città che si accontenta di galleggiare tra eventi che si presentano grandiosi, ma che lasciano la sua cittadinanza e la sua economia ai margini dalle tendenze realmente contemporanee dell’arte? Oppure, un contesto che può far di necessità virtù e investire finalmente nell’assenza del contemporaneo per inserirsi nel giro che conta della cultura e dei relativi circuiti produttivi?

Lo spettacolo è andato in scena
Tempio della Concordia
20 agosto, ore 5:30

Odissea di Omero
di Francesco Nicolini
da Il mio nome è nessuno di Valerio Massimo Manfredi
con Stefano Santospago, Barbara Capucci, Luca Iacono, Tommaso Garrè e Gaetano Tizzano
musiche originali Dario Arcidiacono