Dal Cile ai Paesi Baschi, dal deserto di Atacama all’Amazzonia brasiliana, dal Teatro dell’opera allo stadio della città di Manaus: Azkona & Toloza presenta al Romaeuropa Festival lo step conclusivo della trilogia Pacìfico dedicata a «tre territori molto diversi, ma con una cosa in comune che ne ha segnato l’evoluzione negli ultimi secoli. L’idea, estesa dall’occidente, di nominarli e pensarli come deserti, raccontandoli come territori totalmente vuoti, dove non abita nessuno, ma ricchissimi di risorse naturali di ogni tipo. Tre luoghi ideali per arrivare con macchinari occidentali, nello spirito del progresso, per riempire i nostri mercati e magazzini e per inciso anche le nostre banche, quasi senza nessuna opposizione».

Realizzato in «più di 6 anni di ricerca», il concepimento di Pacìfico è estremamente ambizioso. Si tratta, infatti, di «una serie di progetti di ricerca e creazione che si completa con molte altre creazioni artistiche spaziando dalla poesia visiva, al video, per passare da artefatti sonori, podcast, pubblicazioni grafiche e workshop», ognuna di esse finalizzata a convergere, attraversamento linee di fuga apparentemente eterogenee, su «tre punti fondamentali: lo sviluppo delle nuove forme di colonialismo, la barbarie sul territorio latinoamericano e sui suoi popoli nativi, e il rapporto, stretto ma meno noto, di questi processi con lo sviluppo della cultura contemporanea».

I drammatici processi di conquista post-colombiana, il catechismo coloniale, l’orgoglio del “nuovo Brasile” – repubblicano e positivista – dell’Ordine e del Progresso, ma anche del samba e del calcio, sono fatti che, secondo Azkona & Toloza, tracciano direttive a partire dalle quali il più grande stato sudamericano avrebbe consegnato il proprio sviluppo storico ed economico allo sfruttamento delle risorse da parte di gruppi di potere spesso manovrati dall’esterno. Di questo processo, la mortificazione del femminile perpetuata dalla cultura patriarcale anche all’interno dei movimenti di resistenza e protesta popolare sarebbe tra l’altro la spia di una distorsione ancora più profonda e più ardua da combattere: «la cosa più difficile da riconoscere per la stragrande maggioranza della popolazione europea, della quale anche noi facciamo parte, è che il modo di fare coloniale ci attraversa ferocemente, quotidianamente, inserendosi nel nostro corpo, nelle nostre azioni, nei nostri discorsi». La conclusione è dunque senz’appello «perché comprendiamo il mondo attraverso modelli educativi dove l’unico sapere valido, l’unico apprendimento possibile è segnato dalla colonialità del sapere e dallo sbiancamento culturale». Porre il femminismo nel cuore dello sviluppo di Teatro Amazonas rappresenta allora un accenno doveroso a quello che il duo considera «è uno dei movimenti globali più importanti, complessi e potenti degli ultimi decenni. E forse, una delle sue battaglie più rilevanti è aiutarci a riconoscere gli atti di micro machismo che compiamo quotidianamente, quasi senza rendercene conto».

La scena è inizialmente vuota. Il suo montaggio è semplice e la costruzione avviene passo passo con del nastro adesivo blu che disegna il profilo ramificato del Rio delle Amazzoni e dei ritagli di cartone che plasmano edifici industriali e foreste lungo il suo sinuoso andamento. Sullo sfondo di un telo bianco vengono proiettate parole, immagini e video – alcuni amaramente ironici come quelli di Capitalism for dummies, sorta di tutorial o pillole sulle nuove forme di capitalismo.

Laida Azkona Goñi e Txalo Toloza-Fernández non interpretano nessun personaggio, ma sé stessi al termine di un tentativo di esplorazione del Brasile e in particolare dell’area verde amazzonica, la cui enorme – ma non immensa o infinita – riserva naturalistica continua a essere minacciata dallo sfruttamento capitalistico-industriale e i cui popoli nativi sono stati marginalizzati, se non proprio sterminati, dall’avidità del profitto che prevale sull’equilibrio e la sostenibilità ecologica. I due si confessano «sconfitti», «perché ora quello che dobbiamo fare è tacere e ascoltare, con tutta l’attenzione possibile». Bisogna, pertanto, sospendere il proprio giudizio nella consapevolezza di quanto esso sia ormai inquinato – nonché vittima – del pregiudizio colonialista (o meglio, colonial-machista).

La drammaturgia procede attraverso analogie e metafore, a partire da quella rappresentata dall’opulenta Opera di Manaus che dà il titolo alla pièce: costruito come i teatri europei con marmi di Carrara, lampade in vetro di Murano, mobili in stile Luigi XV, il Teatro Amazonas costituisce la testimonianza plastica della sudditanza di un immaginario incapace di sganciarsi dal modello dominante. Altrettanto suggestivo è il parallelismo con il visionario Fitzcarraldo di Werner Herzog, dunque con l’epica etnocentrica del conquistatore contemporaneo che, reiterata all’interno di una medesima logica di megalomania, portò lo sloveno Martin Strel a nuotare per l’intera lunghezza del Rio delle Amazzoni mostrando come l’ambizione individualistica rappresentasse semplicemente l’altra faccia della stessa medaglia di sfruttamento di un territorio saccheggiato fin dal XVI secolo. Terza analogia (delle voglie di grandeur della borghesia postcoloniale) è poi incarnato da un secondo parallelismo: quello – dichiaratamente politico – che lega i due campionati mondiali di calcio organizzati in Brasile, quello del 1950, con la costruzione dello Stadio Maracanã di Rio de Janerio, e quello del 2014, con la “sorprendente” inaugurazione della tanto imponente quanto inutile Arena da Amazônia di Manaus da parte del progressista Luiz Inácio Lula da Silva in una città praticamente priva di tifoseria.

La narrazione è chiara, alterna brevi parentesi liriche a un andamento prosaico e didascalico e si distribuisce in sette parti, ciascuna delle quali nominata come una stagione del ciclo annuale del popolo tucano. La performance, dunque, contamina il realismo dei fatti con gli artifici dell’arte e lascia che siano i contenuti del discorso a emergere attraverso una recitazione neutrale/priva di pathos accompagnata dalla costruzione scenografica dal vivo della “cartografia” dell’Amazzonia. Le molteplici pratiche della colonizzazione del territorio e di sterminio vengono poi “rinforzate” da testimonianza dirette, alcune delle quali direttamente in video (tra cui quelle di religiosi missionari), altre ricostruite (come il connubio tra Ford e Walt Disney).

Nonostante gli indigeni siano riusciti in tempi recenti a riportare alcune vittorie sul piano legale rispetto alla voracità delle multinazionali, purtroppo la deforestazione e lo spopolamento procedono incontrastate, spesso spalleggiate dal governo brasiliano. D’altro canto, alcuni fenomeni – come la controversa pratica della Teologia della Liberazione e il recente trionfo elettorale di Bolsonaro – sembrano annunciare un futuro a tinte sempre più fosche per i brasiliani e per l’intero pianeta.

L’omicidio di leader sindacali (come Chico Mendes), la visibilità universale del problema – promossa, per esempio, dal celebre scatto della foresta in fiamme di Ueslei Marcelino usato come didascalia dai principali network di tutto il mondo, che però rischia di aver trasformato le fiamme in uno spettacolo globale da ammirare da lontano – e il manifestarsi di problematiche più contemporanee (come la condizione della donna) incontrano una sola autentica resistenza secondo quanto prospettato da Teatro Amazonas, una resistenza incarnata nel finale dello spettacolo dalla sagoma di un giaguaro, il guardiano amazzonico. Sarebbe la potenza ancestrale della terra, la palingenesi della foresta capace di risorgere dalle macerie di Fordlandia, a rappresentare l’unica via di riscatto e ripresa di una natura che segue ritmi e stagioni diverse da quelle dell’essere umano.

Tra cronaca straniante e visione lirica (come la splendida proiezione a “scomparsa” dei nomi di indigeni uccisi negli anni Ottanta), tra freddo documentario e trasfigurazione teatrale, il duo iberico-sudamericano racconta, dunque, «le trasformazioni dell’Amazzonia brasiliana tra boom industriale, cultura coloniale e indigena» con l’intento di «tratteggiare una rivisitazione della storia ufficiale e scrivere una nuova storia che racconti dei vinti, dei “nessuno”».

Tra le crepe di una prospettiva più monolitica che solida si intravedono chiaramente le sfumature di grigio di un’operazione ingenuamente al confine tra arte e attivismo. Infatti, Teatro Amazonas pare ignorare come oggi la storia sia già scritta con la più totale libertà e sia “fatta” da tutti, da chiunque dal proprio punto di vista. Se nel mondo antico l’affermazione di “una storia dei vincitori” risultava credibile (come le guerre galliche “storicizzate” da Giulio Cesare) e se è indiscutibile che la narrazione ufficiale rimanga ad appannaggio dei gruppi di potere e delle élites, oggi nulla e nessuno impedisce agli sconfitti di raccontarsi. Se si tratta, dunque, di “utilizzare” l’arte e i suoi variegati strumenti – anche quelli “formativi” – per documentare «storie dimenticate, cancellate o messe a tacere dal colonialismo», l’assunto, da questo punto di vista, risulta però debole rispetto all’ottica della maturità raggiunta dalla storiografia contemporanea. L’assunto, a lungo vero, è stato ormai messo da parte dai primi decenni del Novecento con l’esplosione del fenomeno della Nouvelle Histoire che, per esempio, ha portato al proliferare di micro-storie perfettamente “legittime”, sempre più particolareggiate, inclusive ed eterodosse.

Per questo l’operazione di Azkona & Toloza appare da subito naif e ingenuamente utopistica nella sua intenzione di raccontare «la storia di coloro che […] sono rimasti saldi per secoli, difendendo la loro sapienza ancestrale e il loro modo di vedere e di ordinare il mondo».

Per il medesimo motivo, Teatro Amazonas può dirsi culturalmente “povero”, in quanto, nonostante la modalità – cruda ed esplicita – attraverso la quale il duo ispanico-sudamericano denuncia un «modo di fare coloniale» che «va avanti organizzando da secoli il mondo allo stesso modo, replicandosi all’infinito, indipendentemente dalle caratteristiche dei territori colonizzati, dei loro ambienti naturali o dei loro abitanti», non basta affermare l’esistenza di un fil rouge tra «la gigantesca piantagione di gomma che l’industriale Henry Ford sviluppò nell’Amazzonia brasiliana», l’attuale deforestazione e le perduranti “dipendenze” delle “province” sudamericane, dell’Africa e dell’Asia che sono nate in «conformità alle loro rispettive metropoli e sotto l’idea europea di Stato». Al netto delle continuità e dello stretto rapporto con i secoli bui dello sfruttamento “antropologico”, confessionale ed economico, pare azzardato aver omologato lo spettacolo sull’idea che «non esistono grandi differenze tra il periodo coloniale, quello postcoloniale e quello neocoloniale»

Lo dimostrano tanto l’ottimistico finale (che restituisce l’idea di una regione che può rinascere sotto la protezione dello “spirito giaguaro”), quanto l’impressione – più volte palesata – di un arbitrario e relativistico appello ai misteri insondabili della cultura e allo spiritualismo nativo. Va bene contestare la prepotente tendenza all’omologazione del razionalismo occidentale, salvaguardare le specificità di territori “altri” rispetto ai modelli di pensiero e azione dominante e riconoscerne il diritto all’esistenza senza se e senza ma. Meno bene, invece, affermare che nulla sia mai cambiato o che il problema, a dirla tutta, non sarebbe altro che la solita cultura patriarcale dalla quale sembra impossibile che “tutti gli altri” – ma non chi la combatte “frontalmente” dal palco di un teatro (come accaduto anche al “contraddittorio” Fuga dall’Egitto) – possano liberarsene.

Lo spettacolo è andato in scena all’interno del Romaeuropa Festival
Mattatoio / Teatro 1
23 – 24 Ottobre 2021
ore 21 e 16

Teatro Amazonas
Prima nazionale
ideato e diretto da Laida Azkona Goñi e Txalo Toloza-Fernández
con Laida Azkona Goñi e Txalo Toloza-Fernández
musica e sound design Rodrigo Rammsy
lighting Ana Rovira
video MiPrimerDrop
stage design Xesca Salvà, MiPrimerDrop
costumi Sara Espinosa
ricerca documentario Leonardo Gamboa
produzione di scena e audiovisiva Elclimamola
traduzione portoghese Livia Diniz
traduzione Tukano, Joao Paulo Lima Barreto
reporter Pedro Granero
illustrazioni Jeisson Castillo
con il supporto di Helena Febrés e Conrado Parodi
produced by Azkona & Toloza
coproduced by Grec Festival de Barcelona, Théâtre Garonne – scène européenne (Toulouse), Marche Teatro (Ancone), INTEATRO Festival (Ancone), Antic Teatre (Barcelona), Théâtre de la Ville-Paris, and Festival d’Automne à Paris
in association with Théâtre de la Ville-Paris, Festival d’Automne à Paris