Lascia ch’io pianga

Assieme a In Exitu, Roberto Latini porta in scena al Vascello di Roma anche una personalissima reinterpretazione del doloroso mito di Venere e Adone.

«Siamo della stessa mancanza di cui son fatti i sogni». Questa sentenza, uno Shakespeare à rebours, fa da sottotitolo e conclude il Venere e Adone di Roberto Latini, frutto di un approccio personale e irripetibile al mito tramandatoci da Ovidio. Shakespeare e Ovidio si rincorrono, a ben vedere, sin dalla scelta del soggetto, nella congiuntura temporale che ha visto lo spettacolo debuttare ai margini della pandemia di Covid19. «In uscita da questo tempo immobile, mi piace riferirmi allo stesso argomento che scelse Shakespeare quando i teatri a Londra nel 1593 furono chiusi per la peste», ha spiegato Latini nelle note di regia. Venere e Adone vengono così a simboleggiare «l’amore terrestre e quello divino nel disarmo di un destino ineluttabile».

Venere e Adone è scandito in cinque atti, intitolati rispettivamente AmoreCinghialeAdoneVenereChiunque. Solo in scena, Latini non interpreta nessuna vicenda, ma la lascia risuonare anzitutto con giochi di voce e affidando unicamente ai cambi d’abito e alla minimalista scenografia il segnale dell’alternanza tra i personaggi. Cinghiale, il secondo atto, è foneticamente più libero, caratterizzato dalla creazione, a scena aperta, di un autentico tessuto vocale, musicale e canoro in cui la voce in diretta di Latini si mescola a playback, distorsioni e pre-registrazioni. Al centro dello spettacolo è invece collocato il segmento in cui Adone registra per Venere un video, con il testo – che gli scorre sotto gli occhi – trasmesso su un piccolo schermo al lato del palco, mentre su quello principale a fondo scena vediamo in diretta la registrazione stessa, un primo piano in movimento di Latini: un momento in cui lo spettacolo si diletta in cortocircuiti, e tanto a livello visivo, scenografico, quanto a livello verbale, (a-)dialogico. «Il cinghiale non esiste, non è mai esistito. Sono stato io, sono io il cinghiale». Nel suo atto centrale, quello in cui Latini dà voce ad Adone, lo spettacolo si smaschera come una parodia delle reinterpretazioni del mito. Al termine di ogni Dürrrematt, ben al di là di ogni Capitan Ulisse teatralizzato da Savino, scorgiamo questo Venere e Adone di Latini.

E se i titoli degli atti proiettati sullo schermo dietro all’attore stridono un po’ con il contesto para-mitico della vicenda, la metamorfosi finale di Latini, nei panni di una Venere velata che trascina un carrello contenente spighe di grano, è quanto di più eleusino il teatro contemporaneo abbia da offrirci – seguita peraltro, in un chiasma molto efficace, dall’apparizione di una sorta di cane robot che chiude lo spettacolo su una nota post-moderna.

Come accade sempre negli spettacoli di Latini, è innanzitutto la voce ad andare in scena, in barba ad ogni retorica sul corpo dell’attore. Una voce virtualizzata, distorta, amplificata, ri-riprodotta – non meno, del reato, delle note di Händel, il cui Lascia ch’io pianga a un certo punto dello spettacolo si ritrova ad essere distorto al suono di chitarre rock. A livello di ricerca vocale, il teatro di Latini rappresenta una delle poche eredità tangibili lasciate dalle riflessioni di Carmelo Bene sulla phoné: una ricerca tanto più potente quanto più la voce risulta isolata sulla scena, come una figura di Bacon. L’occhio dello spettatore può appigliarsi a pochi simboli visivi – le magnifiche e scheletriche ali di legno con cui Latini apre il Venere e Adone, ad esempio – per non smarrirsi nelle fiumane del suono.

«L’amore sarà mortale», come denunciato dallo stesso spettacolo, è la sintesi ultima del mito di Venere e Adone. Nel suo lungo e a tratti grottesco monologo di fronte alla macchina da presa, Adone/Latini aggiunge che «l’amore è l’unica morte-in-vita che possiamo sperimentare». Questa seconda affermazione pare richiedere un’integrazione da parte del pubblico: l’amore, e il teatro. Perché pochi spettacoli degli ultimi anni hanno saputo restituire quell’alone di fragilità e mistero, in cui giacciono tanto la vita quanto i sogni, come il Venere e Adone di Roberto Latini.

Lo spettacolo è andato in scena
Teatro Vascello
Via Giacinto Carini 78, Roma
dal 6 all’8 maggio
venerdì ore 21, sabato ore 19, domenica ore 17

Venere e Adone. Siamo della stessa mancanza di cui son fatti i sogni
di e con Roberto Latini
musica e suono Gianluca Misiti
luce Max Mugnai
costume Gianluca Sbicca
scena Marco Rossi
produzione Compagnia Lombardi Tiezzi