L’estate è da poco iniziata, le giornate non sono afose e la determinazione del periodo non è affatto casuale. Tuttavia, se la Festa di Teatro Eco Logico si svolge ormai storicamente nella settimana tra giugno e luglio, non è semplicemente per evitare la bolgia di turisti che invaderà l’isola nei mesi successivi. Il tentativo, infatti, si inscrive nell’intenzione di “proteggere” l’attraversamento dello spazio (domestico, urbano e naturalistico) di Stromboli da parte della comunità che la Festa ha saputo creare nel corso degli anni e che, accanto ai fidelizzati, sembra poter crescere ancora. La scommessa, quindi, è sulla declinazione della capacità attrattiva del binomio arte-natura in termini di coesistenza, dal momento che ciò a cui ambiscono gli organizzatori è la creazione di una nuova “ecologia dello stare insieme”, i cui architravi – oikos e lógos – convivono e si alimentano reciprocamente.

Il primo evento a cui si è assistito si è svolto nella suggestiva cornice de Il Vulcano del Bosco ed è il Concerto per pianoforte: partiture, preludi e fughe di Bach. Dopo una breve introduzione ai pezzi, Andrea di Marco e Simone Niro si sono alternati nell’esecuzione di un Preludio e fuga da Il clavicembalo ben temperato (BWV 870 dal Libro II; BWV 862 dal Libro I) e di una Partita da Clavier-Übung (BWV 827 e 826). Scelte coraggiose quelle dei giovani pianisti, tra l’altro affrontate con l’handicap del pianoforte al posto dell’originario strumento barocco, il cui utilizzo ha risposto soprattutto a motivazioni di carattere simbolico legate all’isola (motivazioni che tuttavia ci sono sfuggite). Per quanto riguarda BWC 870, Andrea di Marco ha mostrato di saperne rispettare l’impressione di fondo – quella di una (solo apparente) improvvisazione – cogliendone con precisione la melodia polifonica, ma faticando a legare adeguatamente le diverse voci, senza però comprometterne la sensazione di vivacità e spensieratezza. Di buon livello anche Simone Niro che, del Preludio e Fuga in la bemolle maggiore, ha saputo restituirne il contrappunto energico e vigoroso, nonché l’amabilità e l’armoniosità. Più complicata, invece, l’interpretazione di quelli che nella traduzione italiana sarebbero Esercizio per la tastiera, ma che in realtà incarnano difficoltà tecniche ed espressive di altissimo livello. Clavier-Übung sono infatti una raccolta lontana da ogni volontà ricreativa o didattica e nascono dall’ambizione bachiana di un perfezionamento non solo nei termini dell’assortimento stilistico e della fusione dei linguaggi, ma anche in quelli dell’anelito etico-religioso (testimoniato anche dalla sigla S.D.C. sul manoscritto, per la Sola Gloria di Dio). Rispetto a tale impostazione, l’esplorazione di entrambi i pianisti, pur tecnicamente adeguata alle danze delle rispettive Partite, ha mostrato di “privilegiare” gli accompagnamenti alle linee principali, così perdendo – dal punto di vista musicale – l’incisività e il ritmo dettato dall’alternanza di accordi, silenzi e giochi fra le voci che ne caratterizza l’alto livello di cantabilità.

A seguire, presso Casa Croce, è andato in scena l’atteso ritorno di Carullo-Minasi «alla Festa a otto anni dalla loro ultima partecipazione per ricordare i Moti di Reggio Calabria, i cinque anarchici morti sulla strada, la disturbante scheggia di un’Italia impazzita, l’eco di un mito andato a finire male». Rimandando alla condivisibile riflessione di Lorena Martufi, val la pena sottolineare alcune debolezze di questo lavoro in termini di contenuti e riferimenti culturali. Se rispetto alla «finezza e ampiezza di pensiero» di De Revolutionibus, Umanità nova: cronaca di una mancata rivoluzione sembra patire alcune eccesive semplificazioni, come la banalizzazione del “politico” nelle vesti del complottismo o la messa in ridicolo delle ragioni degli altri (i fascisti sono brutti e ignoranti perché cattivi; gli anarchici sono giovani e belli, dunque eroici), è soprattutto l’idealismo/fatalismo della prospettiva a essere discutibile e “precario”. Lo spettacolo sembra ammettere che, terminata la stagione degli anni ’70 (che a sinistra non era animata solamente da valori puri e dalla conoscenza marxista del “motivi strutturali”, ma anche da personalismi, dall’unilateralità dell’analisi dei processi storici e dalla semplificazione della “soluzione” finale), l’Occidente ha ormai perso ogni occasione per redimersi, ma, così impostando il discorso, i Carullo-Minasi si espongono con disinvoltura a uno sterile atteggiamento di neocinismo, che Peter Sloterdijk rappresenta come la forma tipicamente contemporanea di «una certa amarezza chic», di una rassegnazione e di un avvilimento morale che si concretizza in «un caso limite di melanconico che riesce a controllare i suoi sintomi depressivi conservando una certa capacità di lavorare». L’artista o lo spettatore, che rischia di essere un «nuovo cinico integrato», non vive più isolato (la botte di Diogene), ma più probabilmente si ritrova a condurre una carriera ordinata con cui esprime «una falsa coscienza illuminata» che lo porta ad «agire contro ciò che, in santa coscienza, pur si sa, caratterizza oggi la situazione sovrastrutturale generale: assenza completa di illusioni e attrazione irresistibile della “forza delle cose”» (Critica della ragion cinica). L’arte, in questa prospettiva, sarebbe peggio che finita in quanto si troverebbe succube di un’estenuante rassegnazione senza alcuna possibilità di far insorgere un cambiamento di status o di sfuggire alle forme dell’intrattenimento, dell’effimero, del rimpianto, della nostalgia o del sarcasmo. Insomma, Umanità nova più che partigiano, traballa nell’essere di parte, uno spettacolo debole nella ricostruzione storica, anche se forte nella restituzione scenica, ambito in cui l’allestimento può godere dell’esperta interpretazione di Carullo e di alcune suggestive soluzioni scenografiche, come l’utilizzo delle sedie vuote con cui il protagonista dialoga e che lasciano emergere la lacerante assenza di un’umanità che, invece, dovrebbe essere straordinariamente presente nel dibattito pubblico e nelle coscienze individuali.

La nostra esperienza teatrale del festival si completa tornando a Il Vulcano del Bosco con la visione di due dei tre quadri che compongono Aminta, «il mondo di Arcadia nel capolavoro di Torquato Tasso, dove le donne sono cacciatrici e gli uomini poeti. Una favola pastorale di Amore & Morte (apparente) che resta una delle più belle interrogazioni di tutti i tempi sull’erotismo». Incastonato in un bosco naturale e curato da Alessandro Fabrizi, lo spettacolo rappresenta in maniera esemplare lo spirito della Festa di cui si era già scritto (Per non soffocare). Costumi poveri ma ben contestualizzati all’ambiente, al periodo e al personaggio che li indossa; elevata tenuta attoriale (eccellente nel caso di Dafne/Mazzi e Silvia/Argenti); musica dal vivo non priva di momenti di autentico virtuosismo; fedeltà assoluta all’originario testo pastorale: nell’opera di Tasso, di cui Fabrizi mostra una significativa conoscenza, si individua drammaturgicamente il dramma del patriarcato e, soprattutto, si mostra e dimostra come la nostra letteratura possa essere rinvigorita dal nulla della conoscenza scolastica in cui spesso sprofonda, senza per questo doversi stremare nelle cervellotiche pieghe della “ricerca” o portare il pubblico a “esaurirsi” nella mancanza di senso della performatività.

Scritta nel rispetto dei principi aristotelici, la lirica è pure enigmatica, ma mai incomprensibile. Inoltre, pur a tratti umbrale nei versi e nelle atmosfere, la vivacità dei versi e delle interpretazioni non fatica a imporsi tanto alla visione, quanto all’ascolto. Dunque, non sorprende aver riscontrato in Aminta la centralità della mimesi che, nell’ottica di una più ampia riflessione estetica, rappresenta la cifra stilistica della Festa, il cui recupero (della mimesi) segna concretamente la profonda distanza da sperimentalismi e da – francamente insopportabili – meta-riflessioni sul destino del teatro che ormai contaminano molti tra i più virtuosi (sic!) contesti festivalieri italiani. Al centro di Aminta e della Festa non stanno l’artista o la cittadinanza avulsi dal proprio contesto; la loro intenzione culturale non vuole sovrastare l’habitat naturale; i loro esiti inscenano e sono localizzati in micro-contesti necessariamente legati al macro. Ecco che l’attenzione alla polarità di genere o all’ecologia, che Aminta contiene (almeno nei suoi due primi tempi), risulta essere non solo condivisibile e urgente a livello locale e planetario, ma anche nucleo tematico che trova nel site-specific la forma scenica capace di rispettare ed esaltare la differenza ontologica tra arte e natura.

Tanto avversata dalle sperimentazioni teatrali fin dal XX secolo, la mimesi può infatti riaprire interrogativi concreti, ma può farlo se il suo utilizzo avviene in una più ampia “ecologia dello stare insieme”, un’ecologia dove a essere messe in discussione sono le abitudini sociali e le responsabilità individuali e dove a essere protagoniste non sono le autoreferenziali personalità dell’artista di turno, artisti spesso più capaci di creare hype che di enucleare opere o incarnare esperienze artistiche.

Spostarsi da una location a un’altra, praticare attività di cura dell’isola, muoversi per conoscere il territorio e le sue tematiche e scoprirle inscrivibili in un orizzonte più ampio; immergersi nell’incessante rumore del magma che rilascia l’energia della Terra come lava; ammirare le nervose increspature del mare che si accendono all’alba per spegnersi al tramonto; essere consapevoli delle minacce subite da un territorio, purtroppo, non immune alle lusinghe dell’antropomorfizzazione predatoria e del turismo consumistico: tutto ciò significa comprendere che l’invito dell’arte non è a liberarsi dalle problematiche o a speculare su di esse, ma a riempirsi di nuovi pensieri su quanto ci circonda. Un invito che la Festa di Teatro Eco Logico, pur mostrando sicuri margini di sviluppo, mostra di aver perfettamente compreso e fatto suo.

Gli spettacoli sono andati in scena all’interno della Festa di Teatro Eco Logico
Il Vulcano del Bosco
Concerto per pianoforte: partiture, preludi e fughe di Bach

con Andrea di Marco e Simone Niro
Preludio e fuga in Do maggiore BWV 870; Partita in La minore BWV 827
Preludio e Fuga in La bemolle maggiore BWV 862; Partita in Do minore BWV 826
organizzato da Marosi in collaborazione con la Festa di Teatro Eco Logico

Casa Croce
Umanità nova: cronaca di una mancata rivoluzione

con Giuseppe Carullo
regia Cristiana Minasi
drammaturgia Fabio Pisano

Il Vulcano del Bosco
Aminta

con Maria Vittoria Argenti, Emiliano Begni, Francesco Buttironi, Giovanni Ciaffoni, Alessio Esposito, Alessandro Fabrizi, Giuseppe Lanino, Laura Mazzi, Amedeo Monda, Alessandro Regoli, Maurizio Rippa
costumi Marina Sciarelli
musiche originali Gianluca Misiti
a cura di Alessandro Fabrizi