Contraddittorietà estetica del Performativo

Recensione Edipo a Colono. Come accade da due decenni, lo stupefacente Teatro della città etrusca di Volterra, prima Città Toscana della Cultura, si riempie di vita e torna alla propria essenza per il Festival Internazionale del Teatro Romano. Per l’edizione celebrativa del ventennale, abbiamo assistito a una versione un po’ traballante di Edipo a Colono, uno tra i monumenti teatrali più ludici e lungimiranti nel ricordarci l’universalità delle radici classiche dell’Occidente sociale e politico.

Scritta da un Sofocle molto anziano e inscenata postuma, la tragedia di Edipo a Colono incarna l’esempio forse più eclatante del collegamento che intercorre tra la tragedia classica e la nostra contemporaneità. A poche opere, infatti, confà l’essere archetipica su temi tanto riconoscibili come la guerra, la migrazione, la pacificazione e finanche il patriarcato. Edipo era stato scacciato dai propri simili, aveva ripudiato tanto i propri figli quanto il cognato Creonte e aveva trovato conforto nella compagnia della piccola Antigone: “emigrato in terra straniera”, esule dell’umanità e inviso al Destino, diventa paradigmatico il fatto che la sua riabilitazione si sia concretizzata nell’accoglienza “gratuita” del Re ateniese Teseo con un esito di sconcertante attualità per i nostri tempi bui.

Dunque, Edipo a Colono radicalizza il legame della cultura classica con la nostra tradizione e ne espande l’influenza al di là dell’ambito della psiche umana, mostrando come la conformazione sociale e politica sia una forma di bio-potere, ossia di organizzazione e definizione ideologicamente e storicamente circoscritta della vita. Se ai tempi di Sofocle l’immaginario mainstream voleva vano ogni tentativo di ribellione (hybris), oggi la situazione sembra essere cambiata e all’arte viene riconosciuta la potenzialità di farsi dissonante nei confronti dello status quo, dunque la capacità di metterlo in discussione, contestarlo e, nel caso, promuovere attitudini rivoluzionarie.

La caduta del Re di Tebe, da sovrano valoroso e magnanimo a mendicante errante, viene presentata in nuove vesti dalla regista Gina Merulla che, nel suo adattamento e traduzione dal testo antico, opta per un approccio che prova a mettere assieme classico e spettacolare. Il rapporto è nel tono enfatico, nella combinazione di partiture tersicoree, musicali, corali e testuali, mentre a non essere salvaguardato è l’intreccio tragico originario, sul quale vengono montati, soprattutto nella prima parte, alcuni episodi che fanno da “Previously On” (la nascita di Edipo, il suo “accecamento”, le corde/catene del destino, elemento che tornerà nel suggestivo finale). L’impostazione delle dinamiche procede verso una tensione costante, le scene sono perennemente dirottate verso climax e picchi emotivi, la suspense è spessa e, a tratti, fuorviante in quanto l’agnizione non contiene molte sorprese rispetto a quanto ci si aspetta. Su tutto e tutti giganteggia la personalità morale e mitologica dei protagonista, l’atteso ma deludente e monotòno Mamadou Dioume; ovviamente non mancano le maschere, che restituiscono i personaggi in fattezze animali a seconda della personalità o del ruolo. La scena è sostanzialmente vuota ed è presente solo un pannello nero a copertura dei rapidi cambi di personaggio, la cui entrata-uscita asseconda la comprensione “visiva” del fatto che ci si trovi in un momento narrativo diverso, il che però era già stato “dettato” dalla voce registrata, così restituendo un vago effetto di “raddoppiamento” più che di straniamento.

La volontà è che questo Edipo possa essere catartico e appagante, nonché riflessivo e critico ma l’equilibrismo risulta troppo audace e non sempre raggiunto. Da un lato, lo spessore che avrebbe dovuto plasmare un linguaggio erudito, ma riconoscibile, nella traduzione proposta non appare né poetico, né prosaico; dall’altro, la regia non ossequia i tempi della parola e preferisce che, al susseguirsi di quadri fisico-espressivi, si sovrapponga una sorta di introduzione verbale dei capitoli di cui l’allestimento si compone, poi ulteriormente “chiariti” da momenti più squisitamente performativi. Gli attori e le attrici, però, svolgono compiti scolastici dal momento che riempiono la scena con la loro relazione, con la tensione dei loro corpi e con la composizione di acrobatici tableaux vivants, e limitano a un frammento lo strumento vocale dal vivo (per riprodurre il canto di Dioume) e alle smorfie del viso l’espressività emozionale. La performatività è dunque solo apparente in quanto non si hanno variazioni o sviluppi nell’incedere attoriale, ma il limitarsi a un muto e mimetico “gesticolare” tra le sfumature emotive o ideologiche del rispettivo ruolo. Infine, non per le problematiche tecniche, che possono sempre capitare, ma per la disturbante sensazione estetica, il martellante accompagnamento, così come la voce off registrata, hanno tradito un uso disinvolto e poco raffinato di musicalità pseudo-pop oscillando senza soluzione di continuità dal celebre Adagio di Albinoni all’Inverno di Vivaldi nel Remix dell’Asturia quartet.

Le scelte di Merulla paiono quindi contraddittorie rispetto all’ambizione di fare di Edipo a Colono «la Tragedia della Fine», in cui il protagonista «vaga come un mendicante alla disperata ricerca di un Senso» (che costituisce «la premessa su cui si basa l’intero spettacolo», perché «Edipo non è nient’altro che lo specchio dell’essere umano e ne riflette la natura profonda. Le vicende che vive il nostro protagonista non hanno più significato nella loro dimensione individuale e privata ma devono essere restituite al pubblico nella loro dimensione universale e umana»).

Le menzogna, i fraintendimenti e le verità si palesano effettivamente nelle contorsioni della parola, in un testo che si afferma e si nega allo stesso tempo, ma questo vortice semantico si sgretola in scena perché agli spettatori viene offerto uno sforzo collettivo ancora acerbo, uno sforzo che, astutamente e sorvolando sulla “caduta didascalica” della scena dello stupro, nasconde le lacune – proprie e di un testo controverso per intensità e contenuti – dietro una messa in scena barocca nella strumentazione (registrazioni, accompagnamento musicale ininterrotto, enfasi posturale) e “povera” in quella della formazione attoriale. L’aver declinato la spina dorsale di Edipo a Colono sulla componente sonora ha finito per sovrastare e tenere insieme le varie disarticolazioni attoriali, ma sembra ancora molto lontana dal poter descrivere «Partiture Fisiche su Musica o Silenzio», dunque dal riuscire a «rivisitare e trasformare un Classico senza tempo per mezzo di differenti linguaggi artistici e nuovi codici espressivi derivati dalla contaminazione di Teatro, Musica, Danza e Arti Visive».

Lo spettacolo è andato in scena all’interno del Festival Internazionale del Teatro Romano
Teatro Romano
Piazza Caduti nei Lager Nazisti, Volterra (PI)

Edipo a Colono
di Sofocle
traduzione, adattamento e regia Gina Merulla
con Mamadou Dioume
e con Fabrizio Ferrari, David Marzi, Alberto Bucco, Carlotta Mancini, Lorenza Sacchetto
produzione Teatro Hamlet, Generazioni Spettacolari e CTM Centro Teatrale Meridionale