Dialoghi del cuscino

Il meraviglioso scenario del Teatro di Agrigento, progettato dal genio di Giovan Battista Filippo Basile e intitolato al Premio Nobel Luigi Pirandello, apre la stagione con Il caso Tandoy, un allestimento firmato dal celebre autore televisivo Michele Guardì e dedicato a un episodio di cronaca mafiosa del marzo 1960. Uno spettacolo ambizioso e dall’esito controverso, ma che presta il fianco a considerazioni sul ruolo del teatro come momento di riflessione storica.

Il sipario si apre su una stanza disordinata. In questa sorta di mansarda, tra giornali accatastati e pareti coperte di locandine (anche afferenti a eventi curati dallo stesso Guardì, in un gioco meta-citazionistico piuttosto criptico), si aggira un Autore in cerca di Personaggi. Introdotta da questo interessante ribaltamento del celebre refrain pirandelliano, la vicenda entra nel vivo presentando al pubblico un caso che focalizzò la curiosità nazionale su una remota cittadina della provincia siciliana. Un delitto aveva macchiato il Viale della Vittoria di Agrigento con il ritrovamento del cadavere del pugliese Cataldo Tandoy, commissario della squadra mobile di Polizia appena trasferito a Roma. Il Viale è il cuore borghese della città, una lunga strada che oggi, attraversando un percorso alberato che separa da una parte l’élite urbana e dall’altra la strepitosa Valle dei Templi, parte dalla Stazione Centrale e giunge all’incrocio tra la Cittadella Sanitaria e il prestigioso Liceo Scientifico Leonardo da Vinci. Proprio lungo il Viale, la sera del 30 marzo del 1960, Tandoy e la moglie Leila Motta vennero raggiunti da due sicari che, sparando colpi da breve distanza, avevano freddato lui, lasciato illesa lei e ucciso Nini D’Amanti, un malcapitato studente liceale trovatosi sulla traiettoria di un proiettile.

Il Tandoy venne ucciso in una periferia d’Italia più vicina al Terzo Mondo che al Continente e, a latere della violenza del gesto, i “corvi” agrigentini mostrarono le proprie “ragioni”, scatenando i pettegolezzi su autopsie non svolte per rispetto della famiglia, lettere anonime sulla vita privata del commissario e intrecci con i potentati locali. A scandalizzare fu, in particolare, la bella e giovane moglie di Tandoy, la poco più che trentenne Leila Motta, una ex crocerossina che aveva conosciuto il futuro marito, già compagno di scuola di Aldo Moro, in un ospedale militare siciliano. Un grave mutilato di guerra con in consorte una simile creatura era materia troppo succulenta per passare inosservata. Inoltre, in città era un fatto noto – ma sottaciuto – che Leila Motta fosse l’amante di Mario La Loggia, direttore dell’ospedale psichiatrico, potente democristiano e fratello dell’ex presidente della Regione siciliana. Il professore era un personaggio chiacchierato anche per via del rapporto anticonvenzionale con la moglie slava, l’avvenente e spavalda Danika Pejorie, futura attrice di commedie all’italiana e attiva nel cinema d’autore (fu diretta anche da Fellini e Di Leo), andata via da casa e trasferitasi da Giuseppe Agnello, barone e feudatario locale che era stato rapito da ignoti e salvato proprio da Tandoy. L’arresto di Leila Motta e Mario La Loggia sembrò l’ovvia e degna conclusione di quello che fu lo scandalo estivo della penisola, una telenovela fomentata dalla stampa locale e italiana anche attraverso riferimenti alle “intrecciate” abitudini sessuali delle coppie Tandoy/La Loggia (i cosiddetti “balletti verdi”). Parlando di sesso e danaro, di politica e droga, i quotidiani dimenticarono però di nominare qualcosa che, a pensarci bene, allora non esisteva o comunque non uccideva i servitori dello Stato: la mafia. Dopotutto, l’istruttoria condotta dai magistrati di Agrigento sembrava muoversi con certezza e il duo La Loggia/Motta rimase in carcere fino a Natale del 1960 prima del proscioglimento da ogni accusa. Le indagini vennero riprese da un nuovo procuratore ma la coltre dell’indifferenza era ormai caduta e i titoli dei giornali erano più interessati al pareggio a reti inviolate tra Palermo e Parma: spostato a Lecce, il processo giunse a conclusione solo nel 1968 e dimostrò come Tandoy non fosse stato vittima di un reato passionale, ma costituisse il tassello di un mosaico che accomunava sindacalisti (Accursio Miraglia), politici e mafiosi locali e probabilmente lo stesso commissario. Inoltre, degli otto condannati all’ergastolo (su oltre venti imputati) ne rimase in carcere solamente uno. Ne Il caso Tandoy, dunque, le apparenze sono più forti della verità, i personaggi più reali delle persone e il teatro ha la meglio sulla realtà: se non stupisce che “teatro” di tale vicenda sia stata la città natale di Luigi Pirandello, allora è con un (efficace) amaro sentimento del contrario che Michele Guardì presenta la propria ironica versione di vicissitudini che sconvolsero la comunità locale ergendola alla ribalta nazionale.

Il combinato disposto tra la morte di un funzionario dello Stato e un giovanissimo ragazzo innocente portò agli “onori” della cronaca quello che fu il giallo estivo dell’epoca. Fino a quel momento, Agrigento, come gran parte della Sicilia, era come se non esistesse agli occhi dell’opinione pubblica e i suoi stessi cittadini non mostravano particolare insofferenza per quel “forzato” isolazionismo che, nel bene e nel male, li aveva tagliati fuori dall’impetuoso sviluppo del boom industriale. I titoli locali inquadrarono esclusivamente la dimensione scandalistica dell’accaduto sfoggiando articoli sulla «pacifica quiete agrigentina […] funestata da un duplice omicidio che non trova riscontri negli annali della nostra cronaca». La realtà era ben diversa da quella sbandierata con toni tanto enfatici, quanto superficiali, toni che, mutatis mutandis, ancora oggi continuano a edulcorare le notizie e le smentite diffuse alla velocità della rete con imbarazzante assenza di verifica e/o approfondimento.

Infatti, se pochi anni prima del Caso Tandoy, la più meridionale delle province nostrane era stata bagnata dal sangue di sindacalisti sparso da Cosa Nostra (come Vincenzo Di Salvo o Accursio Miraglia su cui lo stesso Tandoy aveva indagato), solo un paio di mesi dopo accadde che Danilo Dolci poté organizzare a Palma di Montechiaro – un lembo di provincia dove i problemi igienico-sanitari erano allora da Quarto Mondo e il clima politico da far west – un convegno internazionale con personalità quali Leonardo Sciascia, Carlo Levi, Giorgio Napolitano, Jean-Paul Sartre, René Dumont, Paolo Sylos Labini e Pier Paolo Pasolini per discutere e far conoscere la realtà del sottosviluppo del Sud d’Italia. Insomma, la Sicilia – Agrigento in modo particolare – era ed è una terra dove le contraddizioni sono enormi e drammatiche e questo spettacolo, come dichiarato dal regista al termine del debutto, intende proporre una visione alternativa rispetto alla vulgata fomentata da intellettuali facili alla battuta, ma poco avvezzi a prendersi le proprie responsabilità. Ironia della sorte, si potrà ricordare come un mese prima dell’omicidio Tandoy, Indro Montanelli avesse dichiarato a Le Figaro: «Ah! La Sicilia! Voi avete l’Algeria, noi abbiamo la Sicilia. Ma voi non siete obbligati a dire agli algerini che sono francesi. Noi, circostanza aggravante, siamo obbligati ad accordare ai siciliani la qualità di italiani».

L’Autore che rievoca il caso dalle pagine dei giornali e riporta al mondo i vari protagonisti del fattaccio è un Gianluca Guidi dedito alla parte, ma ancora troppo macchinoso nel restituirla. Giuseppe Manfridi è invece un procuratore adeguatamente ottuso e contorto, mentre gli agrigentini Gaetano Aronica e Marcella Lattuca assolvono senza particolari affanni i ruoli di Mario La Loggia e di Danika Pejorie. Completano il cast la convincente Caterina Milicchio (una confusa e infelice vedova Tandoy), Roberto Iannone (un evanescente Tandoy), Noemi Esposito (forzata nella parte della moglie dell’Autore), Marco Landola e Antonio Rampino. Il corpo a corpo verbale tra Autore e Procuratore (saltuariamente interrotto dal tentativo della moglie del primo di riportarlo alla realtà), il conflitto tra immaginazione, interpretazione e fatti, la dialettica tra le storie individuali (di chi vive ad Agrigento) che sembrano segnate dalla necessità della Storia (di una città che viveva e vive ai margini dello sviluppo sociale, culturale ed economico del resto d’Italia): su questi elementi Guardì realizza una pièce manovrando con una regia lineare e tradizionalista interpretazioni di livello “altalenante” e senza particolari picchi di qualità, ma lo spettro di Pirandello aleggia virtuosamente sull’intero allestimento. Innanzitutto, pirandelliani sono i costumi grondanti di manierismo e la scenografia costruita con grottesco “verismo” nel mobilio e nei riferimenti cronologici all’epoca. Pirandelliano è l’andirivieni di vari personaggi che attraversano senza soluzione di continuità le quattro pareti della scena, sostando nel mezzo del proscenio per rivolgersi direttamente al pubblico. Pirandelliana è la deriva stilistica di un testo prolisso nelle descrizioni, pedante nelle motivazioni, elevato nella forma e non scevro da cadute moralistiche («l’amore è l’incontro tra due egoismi»). Pirandelliane sono anche la lunga durata e il ritmo compassato dello spettacolo, anche se in questo caso c’è da aggiungere un “purtroppo”, visto che all’incedere narrativo mancano ancora la giusta tensione “verbale” (spesso declinata sulla ricerca di una stucchevole inflessione dialettale) e l’adeguata restituzione performativa, ma sono questi dei tecnicismi che il progressivo affiatamento attoriale potrà in buona parte compensare. Poco pirandelliana è, invece, la morale di fondo che la regia assume semplificando i contrasti dell’epoca alla luce della propria intenzione drammaturgica (dimostrare che la cittadinanza agrigentina fu allora e continua a essere vittima di una cattiva stampa) e che si sussume in un’ottica poco radicale e dirompente rispetto al passato inscenato e al presente trasfigurato. Infatti, Michele Guardì sembra accogliere l’idea che, per cambiare l’approccio nel presente e “aprire” a un futuro migliore, sia necessario cambiare il nostro sguardo sul passato che «vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi» (Tesi di filosofia della storia, Walter Benjamin). Nell’adempiere a questa “contorsione dialettica” e nel tentativo di dare un contributo al mutamento delle prospettive sull’immediato futuro, il regista di Casteltermini realizza però uno spettacolo oltremodo generoso nel reinterpretare la relazione tra ciò che Agrigento era stata allora e ciò che è oggi, un contesto certamente non privo di potenzialità, ma quantomeno pigro nell’attualizzarle.

Rileggere il passato forzandone e stravolgendone alcuni passaggi, come ammette nel finale l’Autore quando spiega il perché sia stata volutamente tralasciata dal racconto la morte di Nini D’Amanti, risponde all’esigenza di “riscrivere/riseminare” tanto il presente quanto il futuro, le cui prospettive, però, appaiono tutt’altro che rosee nei “fatti” di una città che, eccezion fatta per la stagione estiva, declina la cultura dal vivo in termini di folclore e spot e che non sembra aver contezza dei movimenti tellurici che hanno smottato l’arte scenica contemporanea del XXI secolo in termini performativi e post-drammatici.

Quella di Guardì è di certo un’operazione dai nobili intenti in quanto vuol restituire parola alle mute macerie del passato, affinché il presente possa redimersi nel ricordo delle sue vittime. Eppure, la memoria non va assecondata nella sua deriva assolutoria, perché il rischio è che il tempo edulcori il dolore delle cicatrici, che tolga il sale dalle ferite e smetta di testimoniare l’insensatezza della sofferenza umana. Il timore è che, così facendo, si trascuri il fatto che a reiterare la sconfitta degli ultimi non è tanto un calcolo razionale teso a far prevalere un ipotetico Spirito Assoluto o una supposta Volontà Generale sugli appetiti e sui bisogni individuali, ma più “volentieri” il sadico delirio dei potenti di turno. Oggi, dopo l’indispensabile e impagabile operazione della Nouvelle Histoire, non esiste più il pericolo di una Storia unica, quella dei vincitori, ma esiste quello di far credere che, comunque si possano conoscere e comprendere i fatti, essi seguiranno un Destino da cui sono escluse le possibilità non date, le occasioni mancate, le opportunità che sarebbero potute essere e che avrebbero potuto cambiare il verso degli accadimenti.

Il caso Tandoy scorge la profondità abissale della questione del riscatto dei marginali, della fondamentale importanza delle singole storie nella Storia generale, anche se si limita a un’operazione debole dal punto di vista culturale e formale, dal momento che ripropone, pur con qualche interessante innovazione, il “semplice” canone pirandelliano. Probabilmente troppo poco nei contenuti e lento nelle dinamiche per lasciare il segno e scuotere le coscienze intorpidite dalla comunicazione semplificatoria ormai onnipervasiva e perenne; tuttavia, se, in epoca moderna, la verità è stata svuotata di senso perché votata all’obbedienza e all’immobilità, l’operazione Guardì va comunque guardata con favore in quanto intende proporre per la propria terra una “nuova” pre-visione temporale. Se nel caos consumistico della post-modernità si tratta ri-produrre un senso nuovo e gravido di valori e delle verità capaci di ri-orientarci in quello stesso caos, allora è proprio dal passato che si può trarre una lezione positiva sui tempi bui del nostro presente, ma solo a patto di riconoscere la precarietà della verità come fonte di riscatto autentico. Si palesa dunque un compito titanico a cui il teatro potrà dare un proprio contributo per il “bene” delle nostre esistenze e di quelle dell’intero Pianeta, solo a patto di non cedere alla tentazione del compromesso buonista o alla crudeltà del cattivismo gratuito.

Ai posteri, se ci saranno, l’ardua sentenza.

Lo spettacolo è andato in scena
Teatro Pirandello
Piazza Luigi Pirandello 1, Agrigento
11, 12 e 13 novembre

Il caso Tandoy
di Michele Guardì
regia di Michele Guardì
con Gianluca Guidi, Giuseppe Manfridi, Gaetano Aronica, Caterina Milicchio, Marcella Lattuca, Antonio Rampino, Noemi Esposito, Marco Landola, Roberto Iannone
scene e costumi Carlo De Martino
light designer Umile Vainieri
musiche Sergio Cammariere
in collaborazione con Alessandro Sales
prodotto Fondazione Teatro Pirandello e Farancesco Bellomo