Bi-polarità e dualità in un vortice drammaturgico-performativo

Recensione La Creazione. Dedicato alla creazione del Mondo e ispirato ai libri della Genesi e dei Salmi e al poema Paradise Lost di John Milton, l’oratorio di Franz Joseph Haydn – che su libretto di Gottfried van Swieten fu la massima espressione della sensibilità profondamente religiosa del compositore austriaco – diventa nella rifrazione di Lenz l’occasione per «mettere in relazione il limite della “prospettiva umana”, la dimensione umana del tempo e le ultime ricerche scientifiche sull’origine dell’Universo, o degli universi, nonché sulla comparsa del primo uomo e della prima donna sulla Terra».

Forse perché è un “qualcosa” che tocca e coinvolge chiunque e di cui ognuno ha esperienza diretta e personale, il tempo è un tema che può sembrare di semplice interpretazione. Il senso comune pensa al suo scorrere come lineare e sequenziale, in realtà il mistero che esso rappresenta – non solo per i profani, ma anche per gli specialisti – è incredibilmente lontano da questa “banale” considerazione. Non si tratta di constatare come sia inutile attenderlo, conservarlo o assicurarlo, essendo la valutazione del passato mai univoca, la conoscenza del presente mai completa e l’anticipazione del futuro impossibile da prevedere. In gioco c’è qualcosa di tanto sconvolgente da mettere in discussione l’esistenza stessa del tempo: la relatività einsteiniana ha “disvelato” come esso esista a diversi livello di “spazio” e scorra a velocità variabile a seconda del movimento e della posizione, mentre la simultaneità quantistica ne ha “scoperto” la capacità di “evolversi” indistintamente verso il passato e il futuro. Se «nelle equazioni di Newton era sempre presente […] oggi nelle equazioni fondamentali della fisica il tempo sparisce» (L’ordine del tempo, Rovelli), almeno nei termini di unità discreta diversamente quantificabile. Il comune tempo “termodinamico” è del tutto “incompatibile” con l’andamento dei livelli di entropia nell’Universo e questo conduce – per quanto possa essere “irragionevole” rispetto all’esperienza quotidiana – passato, presente e futuro, anzi passati, presenti e futuri a non escludersi e opporsi l’uno all’altro.

Ultimo ma non meno importante, va poi ricordato come sulla possibilità di dare una determinata definizione di tempo, dunque sul provare a “manipolare” la direzione della storia e del suo incedere, si confrontino ideologie, cosmogonie e antropologie profondamente distanti, se non proprio conflittuali tra loro. Basti pensare che la nostra eredità greca ci ha lasciato considerazioni estremamente sfaccettate di un tempo che, senza soluzione di continuità, potrà essere “misurabile” e “inappellabile” (Chronos), ciclico ed eterno (Eniautos) o significativo (Kairos).

Sulla sfondo di questo crocevia concettuale, Lenz prova a enucleare la problematica meta-fisica e antropologica del tempo senza limitarsi alla più immediata opposizione tra il “tempo degli orari” (che non ammette scadenze ed è fonte di rimpianti e rimorsi, ma anche di possibilità organizzative ed egualitarismo) e il “tempo creativo” legato al flusso psichico ed esperienziale di soggetti concretamente esistenti, quindi potenzialmente “classista”. Maestri e Pititto raccolgono dalle più attuali suggestioni fisiche, più che filosofiche, la consapevolezza che il tempo e la sua percezione non “commutino” (nel senso che non sono indifferenti l’uno all’altro) e il fatto che dalla loro reciprocità sorga la questione – tanto “umana, troppo umana”, quanto “ontologica” – di “come” considerare la forma primitiva dell’istante temporale.

Non è detto che l’Universo o il Mondo interagiscano con l’essere umano, anzi è probabile che, con buona pace per le teorie apocalittiche dell’Antropocene, essi siano nei nostri confronti del tutto indifferenti dal punto di vista Cosmico o Geologico. Ciononostante, nel tempo si riconosce qualcosa di più o di diverso dalla semplice somma di processi interdipendenti che si susseguono in momenti successivi. La memoria germoglia sul presente e semina il futuro, mentre il presente gronda di segni della storia che verrà, così come nel futuro pullulano tracce di ciò che è stato. Il racconto è un modo per dare senso, ma è proprio la memoria che lega tutto ed è la speranza, se non proprio l’utopia, a fornire il “combustibile” di questo processo. Nel Libro XI delle Confessioni, sant’Agostino intuì come si “sia” sempre nel presente e come la consapevolezza della nostra durata dipenda dal fatto che ogni istante temporale “sia in noi” fondato come ricordo e come anticipazione perché «è nella mia mente, allora, che misuro il tempo». Mutatis mutandis, Heidegger scriverà che «il tempo si temporalizza solo nella misura in cui ci sono gli esseri umani» (Introduzione alla Metafisica).

Rispetto all’esercizio di stile di Altro Stato, Lenz recupera la radicalità culturale della propria poetica («c’è stato un tempo, prima dell’inizio del tempo?») per testimoniare come «al pari della ricerca scientifica e teologica […] la ricerca artistica possa contribuire a sviluppare nuovi orizzonti di conoscenza, di profonda esperienza intellettuale sia tramite l’esperienza dell’atto concreto sia tramite la messa in musica del canto» (note di regia).

Il fatto che La Creazione faccia parte di un progetto triennale sulle Sacre Scritture lascia intuire come ci sia tutto il “tempo” per piegare e dispiegare una tematica dall’enorme portato esistenziale e artistico e che, nella rappresentazione cui abbiamo assistito, cova in nuce, ma già significativa di futuri sviluppi. Lenz riduce il commento dei tre solisti-arcangeli (che nell’originario di Haydn ricordano i giorni della Creazione) alla dialettica tra un soprano e una performer, vale a dire tra un Teologo e una Scienziata, ma quello che appare più interessante dal punto di vista della riflessione estetica è la coerenza con cui questo allestimento viene “innervato” di un movimento che si dipana attraversando linee drammaturgiche bi-polari e duali. Dal punto di vista testuale, tale “vortice” è introdotto da una straniante – efficace, ma da maneggiare con cura – introduzione su ciò che il pubblico si appresta ad assistere per poi proseguire «per lampi di memoria rovesciata: dal versetto 27 che conclude il primo racconto della Genesi biblica E Dio creò l’uomo a sua immagine al primo versetto In principio Dio creò il cielo e la terra». Le due entità, il Teologo e la Scienziata, sono chiamate all’arduo tentativo di «provare l’esistenza dell’Uno iniziale e a trovarne tracce residue nel presente creativo», mentre i ruoli di Adamo ed Eva sono “contesi” dall’imagoturgia, che restituisce anche una funzione “corale” nella monumentale celebrazione della Creazione con incursioni di momenti descrittivo-simbolici (esseri umani, pezzi anatomici, materiali inorganici).

Tutto rimanda a questo indefinibile e inesauribile gioco tra bi-polarità e dualità, gioco che rappresenta il fondamento che intenziona questa Creazione e la creazione del tempo. L’atteggiamento fideisticamente “giocondo” di Haydn è adesso materia di una narrazione che prende forma attraverso l’incrocio tra rappresentazioni visive e partiture sonore e tra partiture fisiche e rappresentazioni vocali. L’impetuosità dell’imagoturgia si popola di creature e del loro vivere, ma anche di creazioni artistiche (tratte dalla Cupola del Duomo di Parma del Correggio e dall’Assunzione della Vergine). La spigolosità del canto in tedesco e la “facilità” con cui Valentina Barbarini si “cambia” ed espone il proprio corpo vanno in contrappunto con le arie, le posture e le proiezioni del creato. L’idillio della “natura naturata” che Haydn aveva ereditato dalla teodicea di Leibnitz diventa nel tono della recitazione attoriale e della cantante, così come nell’atmosfera cupa e ferina dell’installazione e dell’imagoturgia, fonte di interrogativi “illimitati” che non hanno alcuna funzione consolatrice, in quanto spalancano la possibilità dello smarrimento e del dolore per l’umanità nel Mondo terreno. La visione e l’ascolto conducono dal Caos che precede la Creazione al caos terreno da cui – ma ancora non lo sappiamo – potrebbe in qualche modo prendere le mosse un prossimo episodio del progetto, mentre la spontaneità spirituale e la religiosità senza patemi di Haydn viene recuperata in un corpo a corpo tra le due protagoniste – l’uno che canta, l’altra che agisce – che si rovescia nella loro inversione spaziale al termine del tempo dello spettacolo, con la Scienziata seduta al posto del Teologo e quest’ultimo frontale al pubblico dove aveva iniziato la prima.

Quanto era oscuro e informe prima della Creazione è ora formato e chiaro, la manifestazione improvvisa del primo atto della Creazione è la folgore della luce (i flash in scena) e in questa apparente perfezione non c’è più nulla di divino. Le forze indomite e drammatiche insite prima «dell’Uno iniziale» possono ora scatenarsi, anche il male può manifestarsi, ma ciò che sarà è confuso perché immerso in un senso di sospensione dettata dal “manifestarsi” dei buio finale. Se fino al “principio”, l’assenza di cromatismo coincideva con l’inesistenza delle tenebre, con la luce la “ritmica” del sorgere del Mondo potrà farsi celebrazione o tragedia, ma in ogni caso sarà un autodafé a cui l’essere umano potrà dare un contributo decisivo “solo” per ciò che lo riguarda, non certo per l’Universo o il Mondo intero.

Passo a passo, La Creazione evoca, in una dimensione a volte di indistinzione panica, il “corteggiamento” del serpente, la nascita della natura non animata e di quella animata, infine dell’uomo e della donna che pure, in realtà, sono il centro e radice di ogni cosa. Lo splendore della luce è adesso compiuto, le bi-polarità e le dualità hanno lasciato tracce che potranno essere seguite o “seminate” o “sterminate”: “sarà” del tempo quello che si “farà” di esso. Il principio era la fine di “qualcosa”, ma la fine è un nuovo inizio, così come il tempo prima del tempo era un “qualcosa” in cui il tempo già dimorava. Per questo l’azione si sviluppa in uno spazio determinato da un «doppio velo trasparente e semicircolare» che «ospita l’immagine, la contiene e la curva come lo spaziotempo si piega alla massa dei corpi, nella scena quadridimensionale dove il tempo fluttua tra un prima e un dopo, e insieme materia e immagine fluttuano tra passato e presente».

Questo luogo limitato non è però limitante, perché l’arte può esplodere nella «direzione inversa a condurre il gioco drammaturgico, un testo all’incontrario, dalla fine all’inizio, da ora fino al primo quasi impercettibile ascolto di una voce, di un rumore, di un suono» per ricordarci come essa, l’arte, «andrebbe accomunata (per esempio) alla scienza quale funzione del benessere sociale e meritare la stessa gratitudine» (Paradiso. Un pezzo sacro).

Lo spettacolo è andato in scena
Lenz Teatro
via Pasubio 3/e, Parma

La Creazione
testo originale di Francesco Pititto dall’opera di Franz Joseph Haydn e dai testi della Genesi, dei Salmi e da Paradiso perduto di John Milton
scrittura, drammaturgia, imagoturgia Francesco Pititto
installazione, regia, costumi Maria Federica Maestri
interpreti Valentina Barbarini (performer), Debora Tresanini (soprano)
musica Franz Joseph Haydn, Andrea Azzali
voce over Agata Pelosi
cura Elena Sorbi
organizzazione Ilaria Stocchi
ufficio stampa Elisa Barbieri
diffusione Alessandro Conti
traduzione sottotitoli video Cecilia Rosso
cura tecnica Alice Scartapacchio, Lucia Manghi
training Loredana Scianna
assistente tecnico Marco Cavellini
media video Andrea Pizzalis, Riccardo Roberti
produzione Lenz Fondazione
durata 50 minuti
progetto promosso dal Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale – Direzione Generale per la Promozione del Sistema Paese
in collaborazione con la Direzione Generale Spettacolo del Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo
nell’ambito del progetto Vivere all’italiana sul palcoscenico