Dalla maschera alla marionetta

Recensione L’Etang. Gisèle Vienne porta allo Short Theater 2022 L’Etang, densissimo dramma famigliare sulla scia di Robert Walser che si risolve in una fantasmagoria di urla, colori, marionette e ombre.

Franco-austriaca, classe 1976, Gisèle Vienne è una delle artiste sceniche più eclettiche del mondo del teatro e in generale dell’arte europea contemporanea. Regista, coreografa, burattinaia, fotografa, visual artist e occasionalmente anche regista, ormai da due decenni è impegnata in tournée ed esposizioni che hanno diffuso in Europa e in giro per il mondo un’idea contaminata, interdisciplinare e per certi versi estrema di performance – sotto gli occhi perlacei dei burattini che spesso accompagnano gran parte delle sue opere. La sua presenza allo Short Theatre 2022 è sicuramente uno dei punti più eclatanti del programma di quest’anno.

L’Etang, lo spettacolo andato in scena l’11 e il 12 settembre al Vascello di Roma, ha un importante ascendente letterario, l’omonima pièce, scritto in tedesco, di Robert Walser, inclusa in Italia nella raccolta adelphiana Commedia. Der Teich era un’opera giovanile di Walser, scritta in occasione di un compleanno della sorella Fanny, a dire il vero rimasta allo stadio di una prima stesura manoscritta: la trama ruotava intorno a un adolescente che prima minaccia di affogarsi in uno stagno e poi arriva a inscenare davvero il suicidio, solo per vedere i propri familiari piangere per lui. Vienne, che allo Short Theatre porta anche Crowd, il film sperimentale Jerk e la mostra 40 portraits (2003-2008) tutta incentrata sulle marionette, edifica da quest’esile spunto narrativo uno spettacolo oltremodo espressivo, dominato da un densissimo disegno di luci e di colori. L’Etang di Vienne si apre con l’immagine dissociante di un gruppo di marionette attorno a un letto, un letto chiaramente proveniente dalla stanza di un personaggio adolescente, con vestiti, lattine e spazzatura tutt’intorno; poi un addetto di scena rimuove le marionette ed entrano in scena due figure, interpretate da Adèle Haenel ed Henrietta Wallberg, due figure che corrispondono generalmente alla madre e al figlio-finto-suicida immaginato da Walser, ma che in alcuni punti sembrano sovrapporsi anche al padre e al fratello – o alla sorella? – del ragazzo.

Che per godere appieno dello spettacolo occorresse liberarsi di una certa attitudine tradizionale al principium individuationis in scena, lo suggerivano già le marionette a inizio spettacolo – oscure eredi delle maschere del teatro più classico. Un grandioso tappeto sonoro e luministico avvolge tutto lo spettacolo, come a voler suggerire che questo spettacolo va ben al di là dei confini del teatro di posa regolarmente inteso. Le battute sono assolutamente secondarie, ciò che conta è il rapporto di forza che si viene a creare tra la madre e il figlio e all’interno della famiglia tutta. I dialoghi sono superflui, forse anche troppo lunghi, forse anche didascalici, ma la forza catartica de L’Etang non riguarda in alcun modo il detto. La sua forza catartica è condensata in uno squilibrato rapporto di influenze, tra una madre dall’ombra vampiresca e un personaggio adolescente implacabilmente androgino. Incipit e punto di fuga dell’intero spettacolo resta però quella scena iniziale inanimata, inumana e inorganica, con le bambole sparpagliate intorno al letto, sulla scena. Come al termine di un rito finito male, come i resti di un’evocazione fallita.

Una bambola non può morire. Non può neanche vivere però. Tutto ciò che può fare è guardare, fissa, fissa-mente. Mente, ogni bambola mente, è la promessa di un infanzia già tradita, incapace di sopravviversi. Simulacro delle cose autentiche, mignon, très mignon, tutto ciò che una bambola può fare è osservare – e condannare, implicitamente, sé stessa quanto chi il suo sguardo vitreo osserva. È forte allora la pertinenza di questo simbolo posto da Vienne a inizio spettacolo: la bambola è il doppio simmetrico dell’adolescente walseriano, che inscena un finto suicidio solo per gridare alla madre il suo disprezzo per lei e per sé stesso, la fine implacabile dell’infanzia e un’incapacità assoluta di trovare spazio nell’età adulta.

«Le bambole di Gisèle Vienne hanno il colore della morale, della ragione, della cultura e dei miti contemporanei; il colore delle grandi cause nazionali, dell’Illuminismo e dei valori della Civiltà, della Repubblica», scrive Elsa Dorlin nel testo che introduce la mostra al Mattatoio; ma al tempo stesso queste bambole sono nella loro essenza «ninfe androgine, Lolite disarticolate che saturano fantasie, parole e immagini dovunque il capitalismo puzzi di alta moda, arte e progresso». Insomma, nel contrasto tra apparenza leziosa e realtà urlata dei fatti, «questa orda di bambole è il coro del reale che resiste alla derealizzazione» e alla sua violenza. Violenza che sembra insita tanto nel processo di crescita quanti nei rapporti famigliari. «Quello che chiamo “violenza” in L’Etang», ha affermato Vienne, «è la struttura di disuguaglianza che deriva dal sistema di percezione che si costruisce nello spazio familiare. Anche non disporsi all’ascolto può essere inscritto in questo sistema».

In Palcoscenici Fantasma, il testo che Bernard Vouilloux ha dedicato al teatro e all’extrateatro dell’artista franco-viennese, si legge che «gli spazi di Gisèle Vienne non mettono in gioco l’attualizzazione di una storia accaduta ad altri, ma le potenzialità delle nostre esistenze, il loro stato di finzioni potenziali». Una sorniona dimensione archetipica colloca effettivamente L’Etang in una dimensione tra l’onirico e l’atemporale, in cui il dramma di Walser si trova ad essere oggetto tanto di un’essenzializzazione quanto di una vivisezione – gli infiniti dialoghi tra madre e figlio, che non portano a nessun chiarimento reciproco ma sprofondano i due e il pubblico stesso in un abisso di sopraffazione verbale. L’Etang di Gisele Vienne non è una tragedia, ma flirta con le possibilità del tragico nel contemporaneo: nella misura in cui, rovesciando le antiche convenzioni, fa presenziare solo donne sulla scena, anche nei ruoli maschili, e nella misura in cui, silenziosamente, le marionette prendono il posto delle maschere, oltre ad anticipare l’essenza dei personaggi.

Lo spettacolo è andato in scena
Teatro Vascello – Short Theater 2022
via Giacinto Carini 78, Roma
11-12 settembre 2022
ore 20

L’Etang
ideazione, direzione, scenografia, drammaturgia di Gisèle Vienne
basato sul testo originale Der Teich (The Pond) di Robert Walser
con Adèle Haenel e Henrietta Wallberg
adattamento del testo di Adèle Haenel, Julie Shanahan, Henrietta Wallberg
in collaborazione con Gisèle Vienne
luci di Yves Godin
sound design di Adrien Michel
musiche originali di Stephen F. O’Malley e François J. Bonnet
scenografie e allestimento di Gisèle Vienne, Camille Queval e Guillaume Dumont
costumi di Gisèle Vienne e Camille Queval
parrucche e trucco di Mélanie Gerbeaux
produzione DACM / Company Gisèle Vienne
co-produzione Nanterre-Amandiers CDN / Théâtre National de Bretagne / Maillon, Théâtre de Strasbourg – Scène européenne / Holland Festival, Amsterdam / Fonds Transfabrik – Fonds franco-allemand pour le spectacle vivant / Centre Culturel André Malraux (Vandoeuvre-lès-Nancy) / Comédie de Genève / La Filature – Scène nationale de Mulhouse / Le Manège – Scène nationale de Reims / MC2 : Grenoble / Ruhrtriennale / Tandem Scène nationale / Kaserne Basel / International Summer Festival Kampnagel Hamburg / Festival d’Automne à Paris / Théâtre Garonne / CCN2 – Centre Chorégraphique national de Grenoble / BIT Teatergarasjen, Bergen / Black Box Teater, Oslo
con il supporto di CN D Centre national de la danse, La Colline – théâtre national e Théâtre Vidy-Lausanne
con il sostegno di Institut français, Fondazione Nuovi Mecenati
e IN Italia International Network
in collaborazione con Teatro Vascello