Una messa postmoderna

Recensione Mass. Mass è un dramma in costume con brani a carattere sacro e profano, una Gesamtkunstwerk (opera d’arte totale) in cui convergono musica, drammaturgia, danza e poesia. Una produzione ardua e monumentale, concepita dal leggendario direttore d’orchestra Leonard Bernstein, che ancora oggi – a distanza di cinquant’anni – appassiona il pubblico per il suo eclettismo, lasciando invece perplessa la critica.

Recensire Mass non è affatto semplice per l’abbondanza delle prospettive secondo cui può essere interpretata e fruita. Alla complessità dell’opera in sé, che richiederebbe una meticolosa e approfondita analisi sul piano musicale, drammaturgico e coreutico, per non parlare di quello teologico, si aggiunge infatti la storia della sua irregolare ricezione, a cominciare dal clamore e dal sospetto con cui fu accolta l’8 settembre del 1971, data della sua prima esecuzione. Da ultimo, ma non per importanza, un ragionamento specifico meriterebbero le opzioni registiche adottate da Damiano Micheletto, l’esegesi musicale di Diego Matheuz, le preferenze coreografiche di Sasha Riva e Simone Repele, che rendono unica la presente versione dell’opera di Bernstein, accentuandone la carica post-moderna, senza mai incappare in opache atmosfere nichilistiche o, peggio ancora, in una sorta di edulcorato ecumenismo.

Si dirà che tali difficoltà sostanziano il lavoro del critico e che è inevitabile incontrarle ogni qual volta egli si accosta a un’opera teatrale per valutarla esteticamente, indipendentemente dal genere rappresentato o dalle scelte registiche effettuate. In via preliminare occorrerebbe, tuttavia, stabilire se Mass sia una rappresentazione teatrale, un’opera lirica, uno spettacolo di danza, un musical o perfino una celebrazione liturgica, visto che è tutte queste cose insieme. Attribuire etichette non rientra certo tra gli scopi che intendiamo perseguire con la nostra riflessione. Eppure, lo smarrimento provato durante la visione di un’opera di fatto inclassificabile sembra un punto di partenza imprescindibile, soprattutto perché non è stato vissuto dal pubblico, che ha affrontato con levità ed entusiasmo le numerose variazioni di registro, se non addirittura di paradigma, musicali e drammaturgiche “provocatoriamente” affastellate da Bernstein.

«Lo spettacolo è il capitale a un tale grado di accumulazione da divenire immagine», tuonava in anni non lontani Guy Debord, profetizzando la tendenza dell’arte contemporanea all’omologazione e alla mercificazione. Senza una capacità di lettura adeguata, Mass rischia di perdere la sua carica sovversiva e di trasformarsi in un virtuosistico esercizio – peraltro riuscito – di stordimento delle masse: del resto, la parola inglese che dà il titolo all’opera contiene in sé questa ambiguità di significati. Una messa per tutti e per nessuno, che si configura come una piacevole pausa di divertissement all’interno di una società oramai totalmente amministrata ed eterodiretta, incapace di tradursi in un’autentica esperienza metamorfica: la rappresentazione teatrale della liturgia tridentina elaborata da Bernstein, abbastanza fedele all’ordinarium, è permeata da una dimensione religiosa ma ne disperde la portata sacra e rituale, in quanto è liberamente utilizzata per parlare di altro.

Commissionatagli dalla vedova del presidente J.F. Kennedy per inaugurare il Center for Performing Arts di Washington D.C. intitolato al marito assassinato, dopo la sua prima messa in scena, Mass fu affossata da Harold Schonberg sulle colonne del New York Times con queste inequivocabili parole: «ovunque c’è un miscuglio di tutto. Si può sentire rock, Broadway, melodie che riecheggiano West Side Story, raga, Beatles, ballate, Copland, corali, inni revivalisti, bande itineranti». Giudizio ingeneroso e perfino un po’ miope, visto che non coglie nel pluristratificato ordito di Mass le influenze di due giganti contemporanei, personalmente frequentati e ammirati da Bernstein, ovvero Igor’ Stranvinskij e Francis Poulenc, entrambi autori di tanta ispirata musica sacra (basti pensare, tra i loro numerosi componimenti, alla Messa scritta dal primo nel 1948 e al Gloria scritto dal secondo nel 1959). Su questo articolatissimo progetto originario si innestano l’esegesi della partitura effettuata dal solidissimo direttore di origini venezuelane Diego Matheuz, formatosi nelle maggiori orchestre del mondo (è stato tra l’altro direttore principale de La Fenice di Venezia e della Melbourne Symphony Orchestra), e le scelte registiche di Damiano Micheletto, capaci di gettare un ponte tra gli Usa degli anni ’70, contrassegnati dall’escalation della guerra nel Vietnam e dal Watergate, e il mondo attuale, in cui le vicende della violenza razziale e religiosa, del materialismo capitalista e della guerra sono tutt’altro che risolte. Le loro strategie interpretative si sposano in un composito quadro d’insieme dal sapore francamente postmoderno che, da un lato, prende atto della “morte di Dio”, narrando le angosce e lo spaesamento dovuti alla perdita di stabili punti di riferimento, ma, dall’altro, rilancia l’esigenza “umana, troppo umana” dell’amore universale e della riaffermazione della fede.

I toni disperati legati alla consapevolezza (di matrice agostiniana) di far parte di una massa damnata, lasciano il posto alla fraterna compassione verso un’umanità dolente, dove le gioie si alternano alle sofferenze, i dubbi alle speranze, i patimenti alla ricerca di aiuto e di misericordia, in sintonia con il magistero del Concilio Vaticano II. La fine delle «grandi metanarrazioni» (J.-F. Lyotard, La condizione postmoderna) che hanno fornito nei secoli un senso unitario al mondo e alimentato le diverse utopie rivoluzionarie non si arena in forme di pessimismo nichilistico, ma esalta l’irriducibile molteplicità dei linguaggi e delle tradizioni, l’attenzione verso le realtà storiche locali, lo scambio culturale e il rispetto per le differenze. Mass mette in scena la condizione postmoderna dell’umanità, la sua peregrinazione in un mondo che non è ancora abbastanza solidale, la sua “coscienza infelice” che sta faticosamente cercando qualcosa di Immutabile in cui credere: non di hodgepodge (guazzabuglio) si tratta, ma di incessante ibridazione o métissage musicale, drammaturgico e coreografico. Innovativa e apprezzabile, a questo riguardo, la scelta di Sasha Riva e di Simone Repele di affidare a una love couple di danzatori, non prevista nella trama originale dell’opera, il compito di attraversare come un fil rouge le varie fasi della liturgia musicata e cantata. Le movenze classiche, neoclassiche e moderne dei ballerini, ampie e flessibili, scattanti e ritmate, in risonanza con le musiche ora marcatamente operistiche, ora jazz e blues, ora rock, restituiscono l’alternanza di pieni e di vuoti di cui è intrisa l’intera vicenda esistenziale metaforizzata dal rito che, dopo un delicatissimo e accorato Lauda, Laudate Deum si conclude con la tradizionale locuzione di congedo del Messale romano The Mass is ended; go in peace.

Pochi sanno, però, di essere solo all’inizio del cammino.

Lo spettacolo è andato in scena
Teatro dell’Opera di Roma – Terme di Caracalla

Via delle Terme di Caracalla, Roma

Mass
A Theatre Piece for Singers, Players and Dancers
testo di Leonard Bernstein
versi e testi aggiuntivi di Stephen Schwartz
musica di Leonard Bernstein
direttore Diego Matheuz
regia Damiano Micheletto
maestro del Coro Roberto Gabbiani
coreografia Sasha Riva e Simone Repele
scene Paolo Fantin
costumi Carla Teti
luci Alessandro Carletti
video Filippo Rossi
Orchestra, Coro e Corpo di Ballo del Teatro dell’Opera di Roma
con la partecipazione di “Fabbrica” Young Artist Program e della Scuola di Canto Corale del Teatro dell’Opera di Roma
Nuovo allestimento Teatro dell’Opera di Roma
Prima rappresentazione in forma scenica in Italia