Persinsala è spesso una voce fuori dal coro, ma non per partito preso o velleità polemiche.

Quindi, per non sembrare sempre quelli che la vogliono sapere più lunga degli altri, abbiamo atteso a intervenire, chiedendo anche ad artisti e organizzatori cosa pensassero della nuova legge – attesa come una panacea che avrebbe risolto dubbi e problematiche incancreniti dal tempo e dal mal costume italico – e tenendo in considerazione gli interventi di esimi colleghi (che, stranamente, sembravano uno la fotocopia dell’altro: un unanime plauso per i maggiori fondi stanziati, o promessi dal Ministro, in barba al fatto che la Legge dovesse concentrarsi sui principi e non sugli emolumenti, e fatto salvo che saranno indubbiamente sfuggiti a noi i distinguo), nonché i dibattiti organizzati da associazioni di categoria (in senso lato), come Cresco – che ha recentemente fornito alla stampa un bel documento finale con spunti critici interessanti.

Detto questo, alcuni temi fondamentali ci sembrano tuttora trascurati e, sebbene si attendano i vari decreti attuativi, ci pare che tutte le foglie di fico di questo mondo non possano coprire il re ormai nudo.
Così, sotto il sole thailandese, non ho trovato di meglio da fare che rileggere l’agognato Codice e – mentre in Italia imperversano bufere meteorologiche e politiche – intervenire come Persinsala in questo agone, che sembra sempre più un’arena di galli (sport molto amato da queste parti, anche se ufficialmente vietato), dove ogni contendente auspica per sé una fetta più grossa della misera torta prodotta con poca inventiva dallo Stato e da un Governo ormai alla canna del gas.

Ma bando all’ironia, poniamoci subito una questione di basilare importanza, ossia chiediamoci se sia davvero giusto, doveroso e auspicabile finanziare – con le tasse versate dai cittadini italiani per beni e servizi comuni – le arti performative dal vivo e, in particolare, il teatro inteso come prosa.

Chiediamoci quali siano i principi che questa Legge ha – o non ha – sancito come basilari per accedere ai fondi succitati. Non nascondiamoci dietro all’Europa (o alla Costituzione): molte delle sue direttive sono ampiamente e bellamente disattese e, del resto, se una legge è voluta o discende dal consesso – più economico-finanziario che politico – di cui facciamo parte, ciò non significa che la stessa legge sia per forza giusta. Basterebbe vedere, in altri campi, i guasti che stanno causando austerity e pareggio di bilancio per rendersene conto.

Ma veniamo al punto. Un tempo vi erano teatri privati gestiti con piglio imprenditoriale, che sopperivano alla mancanza di finanziamenti con spettacoli di botteghino. C’erano nomi che si vendevano come, oggi, accade a quelli televisivi che producevano un buon giro d’affari offrendo divertimento; altri, di qualità, attiravano gli abbonati della domenica che amavano addormentarsi tra pellicce e profumi, invece che sulla poltrona di casa davanti a un contenitore tv. Poi c’era un teatro pubblico che, come la cara vecchia mamma Rai, doveva produrre cultura (o assumersi il rischio culturale, termine d’uso ai giorni nostri), invitare nomi stranieri in Italia, costruire percorsi internazionali, fare ricerca e innovazione, e per questo abbisognava di finanziamenti. Un teatro, aggiungeremmo noi, che dovrebbe avere sempre direttori amministrativi e artistici di nomina pubblica (ovviamente, a seguito di bando europeo) e che decadono al massimo dopo due mandati triennali.

Ma oggi, con i finanziamenti a pioggia, cosa si finanzia? Questo avrebbe dovuto stabilire il famoso Codice. Il piccolo teatro che produce qualità radicandosi nel sociale di un quartiere disagiato, sicuramente no. Il grande teatro, in centro, con nomi di botteghino che produce imponenti spettacoli in stile Rai5 cinquant’anni dopo, sicuramente sì. È questa la novità di principio?

E qui ci sta una piccola digressione: che la legge imponga a mamma Rai di fare pubblicità al teatro lascia basiti. A parte la trascuratissima questione della libertà di stampa e informazione (su cui potremmo soprassedere considerando l’obbligo un semplice invito, una linea guida per i direttori che li porti a un maggiore interesse verso la cultura in senso lato e a un minore verso l’Auditel), se ciò significa che la Rai dovrà continuare a produrre spot a fine Tg regionale per promuovere l’ultimo polpettone di qualche teatro nazionale, o Rai 5 riproporre fino allo sfinimento i fondi di magazzino con Sir Laurence Olivier in calzamaglia e Vittorio Gassman tra il declamante e il mattatoriale, possiamo anche farne a meno perché, sicuramente, nulla più di quel teatro vecchio mezzo secolo allontana le giovani generazioni dal linguaggio teatrale. Escludendo i vari talent show, che suggeriscono idee di competitività e affermazione, veloce e personalistica, lontanissime dal fare teatro che è studio, cultura, mestiere, duro lavoro, cooperazione di realtà e professionalità diverse, rispetto e fiducia reciproca, continua messa alla prova di se stessi e delle proprie idee e convinzioni.

Risolto il quesito se, quindi, vi siano ragioni valide nell’attuale società italiana per finanziare il teatro – e quale teatro – tenendo anche conto che altre attività culturalmente altrettanto valide – come scrivere libri o dedicarsi alle arti figurative o comporre musica jazz o sinfonica – non ricevono le medesime attenzioni, passiamo al secondo punto. Tutti o quasi hanno elogiato questa legge (di principi) per aver aumentato i finanziamenti. Ora, a parte la non consequenzialità tra principio e pecunia, siamo certi dell’elogio a priori? Abbiamo letto con la dovuta cautela il Codice? Perché a ben vedere, a ogni maggior onore si provvede con una riduzione del Fondo Unico.

Ora, se do con una mano e tolgo con l’altra, ovviamente assicuro il pareggio di bilancio (tanto agognato dall’Europa matrigna) ma questo non significa che aumento le risorse – effettivamente le ridistribuisco. Magari con maggiore equità, magari promettendo che si troveranno i famosi milioni che mancano (o, più esattamente, che li troverà il nuovo Governo). Ma se poi si aggiunge il fatto che, aumentando il numero dei percettori del Fus, i conti decisamente non tornano. Nel calderone degli aventi diritto ci sono tutti. Dalle regioni colpite dal terremoto (che, col dovuto rispetto, sicuramente avranno bisogno di un Panariello per farsi quattro risate sulle macerie delle proprie case, ma forse hanno più interesse a una ricostruzione veloce e funzionale di attività produttive e abitazioni antisismiche) alle Compagnie amatoriali (e ci si chiede perché non finanziare chi organizza tornei di burraco, a questo punto, e perché mettere sullo stesso piano chi svolge l’attività teatrale come professione e chi le dedica due ore alla settimana, e ancora se questa scelta non derivi dalla convinzione che, in fondo, un regista non è un vero professionista come un chirurgo o un architetto); dai Carnevali (buchi di bilancio in Comuni amici, verrebbe da pensare) alle attività circensi che si vorrebbe rendere politically correct con il superamento dell’uso degli animali. Ebbene, se aumentano i percettori del finanziamento, e la matematica non è un’opinione, pare strano che nel complesso vi potrà essere una maggiore distribuzione di fondi ai percettori storici. Senza aprire una diatriba sui festival, che potranno essere anch’essi finanziati, ma non si sa su quali basi (quei principi che, a ben vedere, latitano). Nel senso che, nel corso del 2017, abbiamo visto chiudere molte attività festivaliere di innovazione o vetrine per operatori, a favore di sagre della salamella che i sindaci sperano attraggano i voti di pancia di un elettorato sempre più deluso. Lo Stato cosa finanzierà? Il calderone generico, zuppetta buona per tutte le stagioni?

E ancora, l’accento sul popolare fa rabbrividire. Dateci degli snob ma di Giovanna Marini ce n’è una, di nazional popolari troppi. Così come l’enfasi sul portare il teatro nelle scuole, assolutamente condivisibile, che vede poi come attori (e percettori di finanziamento) magari gli stessi distributori regionali che già si adoperano a portare i nomi di botteghino in ogni Comune, e che saranno probabilmente gli unici ad avere i mezzi e il personale per fare domanda e accedere a detti fondi. Perché, diciamocelo, quante realtà piccole o medie, amatoriali o under 35 (ancora la fascia protetta che di solito si estingue a 36) saranno in grado di compilare bandi e avere i requisiti per i finanziamenti e, soprattutto, quante persone al Ministero saranno incaricate di leggere e vagliare le migliaia (o decine di migliaia) di domande? Miracoli della fede nell’efficienza del sistema Stato Italia.

E qui, come in precedenza, apriamo nuovamente una piccola parentesi. Quello che occorrerebbe davvero alle piccole, medie Compagnie – senza distinguo di età – sono reti di professionisti, magari con contributi statali, che possano offrire servizi di produzione, organizzazione, distribuzione, comunicazione, compilazione bandi anche europei e gestione della burocrazia, a costi contenuti. Così come occorrerebbe un ricambio generazionale con tempistiche certe, e la possibilità per tutti di lavorare con garanzie – quelle sì, europee – rispetto ai periodi di disoccupazione. Questo necessitano i medio-piccoli più che i bonus perché si è “giovani”, che non certificano né la qualità di ciò che si sta facendo, né la possibilità di continuare a farlo invecchiando.

Sugli art bonus ci limitiamo a dire che, sebbene interesseranno fasce più ampie, alla fine andranno ai soliti noti, a coloro che già percepiscono il grosso dei fondi e non solamente ministeriali ma anche regionali e comunali.

Passiamo al Consiglio Superiore (che supera la Consulta) e chiediamoci se sia o meno l’ennesimo cambio di nome o un vero superamento di logiche di potere (va così di moda in Italia passare da Tarsu a Tari o da Ici a Imu, anche quando la sostanza non cambia ma l’aggravio per il cittadino, sì). Per farlo, consideriamo alcuni elementi. I suoi componenti non percepiranno alcun reddito tranne un gettone presenza e un recupero spese, mentre le attività che dovranno svolgere – almeno sulla carta – sono molteplici e gravose a livello di tempo e impegno. Chi se lo potrà permettere? Saranno altresì e almeno in parte personalità scelte dal mondo dello spettacolo dal vivo (i controllati dovrebbero suggerire, quindi, i nomi dei controllori) con competenze, a quanto sembra, soprattutto giuridiche, gestionali ed economiche. Siamo certi che tali specificità professionali – emanazione dei “grandi elettori” del teatro italiano – saranno in grado di individuare artisti e Compagnie di innovazione e ricerca, di determinare quali siano i parametri qualitativi da incentivare, di avere il polso della situazione di ciò che sta accadendo al di fuori del mainstream – nei diversi ambiti locali, nelle periferie, nel sud Italia, nelle realtà medio-piccole di cui parlavamo e che, spesso, sono le più creative?

E chiudiamo con una nota di categoria perché in tutta questa alchemica legge di principi tanto fumosi quanto annacquati, un elemento è totalmente scomparso dai pensieri dei nostri maghi romani. Quale? La critica. Non una parola su tutta la nostra inutile, vituperata, superata categoria di anime belle, che facciamo due se non tre lavori per mantenerci, abbiamo preso magari una laurea, ci autofinanziamo per seguire spettacoli e festival, scriviamo libri, produciamo articoli, inchieste e recensioni, non riceviamo compensi e rischiamo perfino l’espulsione (nel caso vi siamo iscritti) dall’Ordine dei Giornalisti (proprio perché lavoriamo senza percepire compenso). Se ai teatri fa sempre più gioco lo spot di mamma Rai o la presentazione del proprio ufficio stampa – tagliata, ricucita e incollata da qualche redattore (lui sì pagato) che nemmeno sa distinguere tra Majakovskij e Mejerchol’d – sembra che anche ai legislatori romani non interessi più la categoria. La critica teatrale, l’occhio esterno, il professionista che dovrebbe avere le competenze per dialogare con l’artista esce completamente di scena: spazzato via senza nemmeno considerare che, per esempio, il Laboratorio di Prato – uno dei rari crogiuoli creativi davvero multidisciplinari, in tempi in cui la parola non era ancora sinonimo di finanziamenti ad hoc ma autentica scelta artistica – non sarebbe mai esistito se Luca Ronconi non avesse incontrato Franco Quadri (ed entrambi Gae Aulenti). E mi si permetta di aggiungere che se qualcuno volesse obiettare che non ci sono più i Franco Quadri, la risposta altrettanto facile sarebbe che si stanno cercando anche i Luca Ronconi.