L’inferno dei vivi

In scena al Roma Fringe Festival 2022 Dio non parla svedese, un monologo scritto e interpretato da Diego Frisina.

Dio non si occupa degli uomini. È probabilmente un uomo anch’esso, tuttavia amplificato a dimensioni universali, che non sa leggere le istruzioni di montaggio dei mobili Ikea, né il genoma umano per correggerne eventuali errori. Il protagonista del monologo è appunto la giovane vittima di una malattia genetica trasmessa dal padre con prognosi negativa, ma senza sapere il quando o il come. La rabbia che lo pervade si fa godimento autodistruttivo, che di fatto gli permette di anestetizzare il dolore.

Il fatto che Dio non parli svedese è solo un dettaglio, giacché è probabile non sappia parlare affatto. All’uomo tocca quindi il compito di parlare in vece sua, di dire il dolore, la morte, ammesso esistano bastanti parole. Il nostro protagonista rifiuta questa responsabilità. È quello che gli psicanalisti definiscono un “soggetto non analizzabile”, in quanto depositario di una angoscia possibile solo da scaricare in comportamenti distruttivi.

Quando si reca dal terapeuta, il lettino psicanalitico viene paradossalmente utilizzato come un podio, dal quale insegnare al mondo come ci si libera dalla privazione, identificandosi proprio con quel Dio immaginario a cui tutto può essere attribuito, essendo fuori da ogni dialettica umana, cioè da quella hegeliana fatica del concetto a cui ognuno è costretto.
L’altro è fatto fuori, non è più riconosciuto come sofferto interlocutore per un discorso. Il rischio è che il vicolo cieco del protagonista divenga anche quello dell’opera. L’impressione è che si assista a quello che di fatto è un delirio perverso, suggestivo, a tratti efficace, sostenuto dall’intensa energia attoriale, ma all’apparenza chiuso, con scarsi fili da tirare per permettere idealmente alla platea di occupare la scena, in modo da unirsi al dolore di vivere del personaggio, troppo coperto da un compiaciuto e attivo piacere di morte.

Di fatto Dio non parla svedese è la manifestazione efficace di questo “piacere di morte”. Tuttavia, solo a tratti la drammaturgia si mostra capace di far cadere il velo del “piacere” per “dire” retoricamente il dolore che ne sottostà. Si assiste al ben noto catalogo degli espedienti per scendere all’inferno, tra droghe e atti antisociali, strizzando l’occhio a certo cinema, a commenti musicali che devono segnare un ritmo narrativo, ma troppo sapidi per rimarcare l’amaro del “niente” di cui il protagonista è sostanza, e noi con lui.

Ne usciamo con una sensazione ammirata di gagliardia attoriale, ma anche con il sospetto di avere assistito più alla storia di un caso clinico, che a una reale dimensione del tragico. Insomma, lo “svedese” alluso dal titolo è la speranza che esista una lingua in cui sia possibile comunicare il “niente” di cui siamo la materia, malgrado una disperata quanto “gridata” afasia, quest’ultima forse la reale tara ereditaria dell’essere umano. È possibile per il teatro dire il “niente”? Merito di Dio non parla svedese è di darsi alla sfida, ma siamo solo al primo atto di quello che sarà un lungo percorso.

Lo spettacolo è andato in scena all’interno del Roma Fringe Festival
Teatro Vascello

via Giacinto Carini, 78, 00152 Roma
venerdì 15 luglio ore 19, sabato 16 luglio ore 20.30

Dio non parla svedese
di e con Diego Frisina
aiuto regia Ludovico Buldini
direttore tecnico Errico Quagliozzi
produzione Associazione Altra