Epica brahmsiana

Il violinista, violista e direttore d’orchestra russo, ma israeliano d’adozione, Maxim Vengerov si è esibito in un grandioso concerto brahmsiano al Chiostro di Sant’Agostino nell’affascinante “marmorea” Pietrasanta.

Come è noto, Brahms fu, per un verso, il grande erede della stagione romantica ottocentesca e, per l’altro, esponente di istanze che, sia dal punto di vista tematico, sia da quello compositivo, la musica sperimentale del Novecento fece proprie. Tradizionalista e innovatore, Brahms interpretò in maniera originale l’ansia di riscatto dal dolore della coscienza tragica, fu un’anima sofferta sempre attenta e scrupolosa – oltre le soglie dell’autocritica – nella rifinitura delle proprie opere e, allo stesso tempo, il guardiano di una concezione artigianale del fare musica.

Queste due polarità sono state straordinariamente esposte nel sontuoso programma del concerto presentato al Chiostro di Sant’Agostino per Pietrasanta in concerto, la rassegna internazionale di musica fondata e diretta da Michael Guttman e quest’anno dedicata al violino.

Composta dopo la monumentale Quarta Sinfonia op. 98, la Sonata op. 100 appartiene al Brahms intimistico, più colloquiale e delicatamente lirico, aspetti che, difatti, si palesano nel suo stretto legame con il liederismo nostalgico e sentimentale del Romanticismo tedesco e con l’esperienza schubertiana e mendelssohniana. Va detto che con le Sonate per violino e pianoforte op. 78 e op. 108, la op. 100 costituisce espressione della piena maturità di Brahms e in ognuna di esse si riflettono caratteristiche fondamentali della sua musica, a partire proprio da quella più dolcemente affettuosa del Lied che ne attraversa l’intera produzione sinfonica e cameristica.

La Thun, così chiamata dalle montagne svizzere dove venne scritta, ha infatti uno strettissimo legame con la vocalità da camera e le citazioni dal materiale tematico estrapolato dalla produzione liederistica del compositore non sono affatto poche e non passano inosservate, anche se non è per nulla richiesto il loro riconoscimento affinché si possa godere quella sua sconcertante bellezza. La perfezione del linguaggio strumentale di questa Sonata, così come la purezza e la fluidità del suo discorso melodico, viene incastonato in una costruzione formale di profonda elaborazione tematica fin dal primo movimento e che “segue” nella gioiosità complessiva delle atmosfere create da piano e violino che cercano più l’affinità che il contrasto. La semplicità è però solamente apparente. Infatti, la soluzione architettonica e l’equilibrio espressivo necessari per salvaguardare i due strumenti prediletti dell’autore richiesero una lunga gestazione prima che la sua introspettiva e innovativa poetica potesse orientare, in accordo con una tradizione considerata un punto di riferimento ineludibile ma non normativo, un discorso musicale non conflittuale e individualistico ma dialettico. Per questo, un po’ sull’esempio di Schumann, Brahms evitò di cedere agli aspetti più eclatanti del virtuosismo violinistico, esaltandone  la cantabilità e facendo del pianoforte non tanto un interlocutore, ma un partner in crime.

La naturalezza delle variazioni, gli spunti popolareschi, il ritmo amabile del tema iniziale, la sua riesposizione con l’inversione dei ruoli di piano e violino; un secondo movimento caratterizzato dalla singolare alternanza tra due sezioni strutturalmente diverse; la conclusione liberamente costruita in forma rondò, con un severo finale che diventa brillante e spumeggiante per dar “sfogo” agli intrecci psicologici di un disincantato tardo-romantico: questi elementi fanno di Brahms, non solo di quello cameristico, l’ultimo epigono della “nuova” forma di Beethoven, di cui però volle evitare le asperità più drammatiche e la titanica esaltazione della volontà di lotta nella vita. Questi stessi elementi, inoltre, fanno di questa Sonata uno splendido esempio della tecnica brahmsiana di espansione tematica di un frammento apparentemente insignificante che, continuamente rielaborato, diventa un tema completo.

Di bellezza tale da essere apprezzato anche da Clara Schumann, che pure era più portata agli slanci del romanticismo del marito ed era stata spesso severa nei confronti dell’amburghese, il Quintetto in fa minore per pianoforte e archi op. 34 rappresenta la piena maturità di Brahms e l’opera in cui il suo spirito afflitto e “tribolato” raggiunse un invidiabile equilibrio. Siamo, dunque, di fronte a uno dei capolavori assoluti del compositore amburghese, a un’opera il cui fondo nostalgico – con i suoi toni intimi e le sue inflessioni colloquiali – e le cui aperture passionali – con il suo malinconico sentimento della natura contenuto nelle citazioni della musica popolare, specialmente zigana – si esprimono in una straordinaria “compattezza” compositiva. Brahms infatti contenne le novità dal punto di vista dell’architettura e dello sviluppo del materiale sonoro, ricollegandosi per lo più al modello beethoveniano, ma fu capace di una tale inventiva e di una tale soavità di scrittura che riuscì a esprimere al massimo grado un’impressione di assoluta libertà e naturalezza, conciliando gli apparentemente opposti del romanticismo e del classicismo.

Il sentimentalismo espressivo e la costruzione formale, l’inesauribile melodia e la padronanza contrappuntistica furono, in realtà, anche in questo caso esito di un processo molto travagliato. Un processo che non a caso appare magistrale nell’incipit melodico di origine zigana (che introduce al clima di collaborazione tra pianoforte e archi), nella frammentazione e ricomposizione più lirica e distesa del materiale tematico che dà forma al secondo tema e nelle misteriose riprese che ne accompagnano l’incedere e l’alternanza. In particolare, dopo le tensioni del complesso movimento d’apertura nell’Allegro non troppo, e la contrapposizione del più semplice Andante, un poco Adagio, è nello Scherzo. Allegro che l’andamento ritmico martellante lascia emergere la polarità dionisiaca di Brahms, prima di “tornare” al grandioso e straordinariamente libero movimento terminale.

Risulta evidente come se ascoltare tali capolavori possa costituire di per sé un’esperienza appagante per l’anima e nutriente per il cuore, quando a eseguirne le melodie e le armonie sono interpreti di livello mondiale per il rispettivo strumento, la serata si preannuncia essere un autentico privilegio, privilegio impreziosito dall’ascolto dell’esuberante e suggestivo Scherzo tra le due opere “maggiori”.

Maxim Vengerov plays Brahms ha infatti visto sul palco non solo il virtuoso Maxim Vengerov, che rappresenta una “eccellenza” di caratura planetaria, ma anche il par suo Denis Kozhukhin al piano, la stupefacente Jing Zhao al violoncello, la splendida Lise Berthaud alla viola e l’esperto Michael Guttman al violino. Peccato, dunque, constatare come, di fronte a cotanta qualità, non sia stato possibile evitare che l’andirivieni degli operatori video e, soprattutto, il malcostume della corsa ad accaparrarsi un posto migliore da quello effettivamente acquistato (da parte di spettatori soprattutto francofoni, a dimostrazione di come non sia un vizio italico) poco prima dell’inizio del concerto disturbassero l’attenzione e, di conseguenza, inficiassero l’ascolto. Un episodio davvero indecoroso che mal si sposa con il livello assoluto della manifestazione lucchese e a cui si spera che l’organizzazione possa porre rimedio.

Il concerto si è svolto
Chiostro di Sant’Agostino
Via Sant’ Agostino 1, Pietrasanta (Lucca)
ore 21:30

Maxim Vengerov plays Brahms
J. Brahms – Sonata n.2 in A Major, Op.100, Thun, for violin and piano
J. Brahms – Scherzo op posth. in Do minore per violino e pianoforte
J. Brahms – Piano Quintet in F Minor Op. 34

Maxim Vengerov, violin
Denis Kozhukhin, piano
Jing Zhao, cello
Lise Berthaud, alto
Michael Guttman, violin