I dialoghi del cuscino / Momo e la città senza nome

Con Momo e la città senza nome, al Teatro Le maschere di Roma, Giulia Bartolini propone uno spettacolo che si confronta – e scontra – con il più indecifrabile e ambito “tesoro nascosto” dell’Universo, il tempo.

Quello del tempo è un insondabile mistero: inutile “attenderlo”, è già scappato; vano provare a conservarlo, si ri-scoprirà sempre qualcosa di inedito; illusorio pensare di anticiparlo, l’imprevedibile farà in ogni caso la sua comparsa.

Su di esso e a tutte le latitudini del globo, le migliori menti dell’umanità hanno provato a interrogarsi, sondarlo e definirlo. Non a caso, miti, filosofie e religioni sono nate anche per tentare di soddisfare uno tra gli aneliti (culturali) più universalmente ricorrenti, quello di “fissare” il tempo al fine di manipolarlo a piacimento, magari con le migliori intenzioni, sanare i torti, indirizzare il migliore dei mondi possibili, ricostruire sentieri spezzati. Ovviamente, a meno che non ci si avvii su percorsi confessionali, oggi il desiderio di riavvolgere la ruota del tempo è una pura e irrealizzabile utopia, se non una mostruosa chimera.

Chronos (il tempo misurabile che non ammette ripensamenti), Eniautos (il tempo ciclico, che ritorna e muta, come quello delle stagioni) e Kairos (il tempo “significativo”) sono solo alcuni dei termini utilizzati dai Greci per esprimere – del tempo – una matassa di incredibile complessità metafisica e antropologica: confrontarsi con Chronos, come fa Momo nello specifico, significa imbattersi in orari che non ammettono scadenze, immergendosi in un flusso che scorre inesorabile e che ci abbandona in oceani di rimpianti e rimorsi o in crogiuoli di aspettative e progetti.

I margini del tempo, inoltre, incrociano irrimediabilmente quelli dello spazio e lo fanno secondo modalità che, nonostante il senso comune ne abbia poca contezza, sono alternative. Lo spazio-tempo può essere rigidamente strutturato e “oggettivo” come descritto nella rappresentazione degli assi cartesiani che si studia e che si interiorizza tra i banchi di scuola ed è questa la declinazione forse più potente e illusoria della volontà di dominio razionale dell’essere umano sul Mondo, del suo tentativo – forse necessario, forse finalmente da rinnegare – di ricostituire l’esperienza e la vita attraverso coordinate matematiche in cui le “cose” vengono riordinate e rese prevedibili. Anche senza voler considerare le geometrie non euclidee, il XX secolo ha però “annunciato” modi rivoluzionari di concepire lo spazio-tempo, come la Relatività einsteiniana e la “curvatura” quantistica.

Non ci arrischiamo nei meandri di una visione scientifica del mondo talmente complessa che, nonostante abbia ormai un secolo di vita, i nostri programmi didattici considerano aliena, se non marginale o “eccentrica”. Questa lunga premessa serve infatti solo a introdurre il discorso sull’ultima creazione firmata da Giulia Bartolini, Momo e la città senza nome, uno spettacolo proprio sul tempo («Come si ferma il tempo? Cosa significa avere 10 anni? E dopo che cosa succede?» recitano le note di regia) che, nel suo essere controverso da valutare e “comprendere”, ci è apparso fertile e stimolante proprio nelle e per le sue sfumature.

Volendo generalizzare, se non banalizzare (e di ciò ci scusiamo anticipatamente con i lettori), a decretare il successo di uno spettacolo sono solitamente due elementi – il riscontro del pubblico e quello delle “maestranze” – che non per forza dovranno essere concomitanti. Sbancare il botteghino e/o trionfare nei giudizi della critica, degli studiosi e dei colleghi è condizione sufficiente e necessaria affinché un allestimento possa assurgere agli onori della cronaca, circuitare e, magari, passare alla storia in virtù della sua “lettura” in citazioni, analisi e recensioni di saggi e riviste di settore.

È invece ben più complesso individuare il senso di un evento teatrale perché da prendere in considerazione sono una molteplicità di fattori posti all’incrocio tra soggettività e oggettività. Di certo, anche in questo caso sintetizzando, possiamo considerare cruciale l’intenzione autoriale (il “perché” e il “per chi” si crea), così come il “cosa” (il contenuto) e il “come” (la forma). In particolare, è quest’ultimo aspetto ad apparire di rilevanza assoluta dal momento che ci si confronta con il materializzarsi di una idea in un luogo concreto: non riconoscere la forma come decisiva per il senso stesso dell’arte significherebbe rendere quest’ultima indistinguibile da ogni altra attività artigianale e ridurre lo stesso teatro a una modalità meccanica attraverso la quale viene realizzato un manufatto tra altri manufatti (l’artefatto).

L’intenzione (dunque, il “perché” e il “per chi”) di Momo e la città senza nome è nobile e audace. Essendo liberamente ispirato al celebre romanzo dell’autore de La storia infinita, essa si dispiega proprio sul tempo, sulla “posizione esistenziale” rispetto alle situazioni vissute, sul peso delle scelte compiute e, soprattutto, di quelle che ancora possiamo e dovremo compiere. La protagonista Momo è ormai cresciuta e vive un presente logorato; quella che era una eroina bambina, oggi è per Bartolini una trentenne dei nostri tempi, dunque né giovane, né adulta, che subisce drammaticamente la lacerazione prodotta tra la dimensione del tempo oggettivo e quella del tempo creativo (Bergson docet). Il conflitto è insanabile perché se la vita organizzata pretende la temporalità democratica ed egualitaria scandita dalle lancette dell’orologio, anche il tempo dell’intimità risulta irrinunciabile e Momo lo sa bene, perché proprio dalla sua scomparsa aveva salvato il genere umano da una vita altrimenti sterile.

La complessità della posizione ideologica sul tempo è ben individuata ed ereditata dal testo originario di Ende: non si tratta di perdere o di salvaguardare il tempo tout court, ma di riconoscere una gerarchia valoriale tra la sua “interpretazione” oggettiva e quella soggettiva. Se tutto – anche l’arte, il sonno, il gioco – diventasse “oggettivo”, risparmiare tempo significherebbe rendere perversamente padrone la frenesia dei ritmi di produzione imposti dalla contingente struttura economica della società. Il che, a sua volta, comporterebbe sacrificare al consumismo ogni altro bene o valore, ogni umanismo. Per questo lo scenario “momiano” è tutt’altro che bizzarro: quelli che nella fantasia di Ende erano Uomini grigi della Cassa di Risparmio del Tempo, sono in realtà tecnocrati e burocrati dei giorni nostri, “parassiti “che promuovono in nome delle dee dell’ottimizzazione e della produttività l’omologazione a meccanismi imposti dall’esterno, nonché la subordinazione della “caotica” felicità personale al “corretto” funzionamento della collettività. Tuttavia, la conseguente privazione di tutti i momenti creativi della nostra unicità non rende scontata la scelta tra tempo cronologico e tempo creativo: senza “organizzazione” la vita nelle società avanzate è impossibile, ma stornare i margini per la spontaneità individuale comporterebbe l’essere dipendenti dagli oggetti e dal loro possesso effimero. Reificato, l’io si disperde tra eterodirette esigenze sociali imposte dal lavoro, dalla famiglia, dalla prassi.

In Momo e la città senza nome, se l’intenzione e il contenuto da cui essa trae ispirazione sono allora di altissimo livello, la restituzione tecnica risulta ineccepibile solo dal punto di vista teorico dal momento che intende presentare la storia con caratteri epifanici e “animarla” con una costellazione di personalità fantasmatiche.

Non ancora coetanea di Momo, Giulia Bartolini è una regista già esperta e tecnicamente preparatissima, di cui abbiamo ammirato in Carl. Una ballata la capacità di costruire la scena attraverso pochi oggetti e grazie a una sapiente disposizione/gestione performativa dei corpi. Bartolini è lucida nel porre la questione del passaggio «attraverso l’infanzia e […] all’età adulta» e non a caso «si chiede come cambia un’amicizia, cosa diventa una relazione, il gioco dove finisce? il male in cosa si trasforma?». Momo è talmente dilaniata dal peso di questa condizione che in scena dirà di non sapere «neppure quanti anni abbia: quando le viene chiesto, risponde “Se mi ricordo bene, ci sono sempre stata”».

Quello che all’allestimento sembra mancare è però la scelta formale nel senso del coraggio di condurre fino in fondo le proprie scelte drammaturgiche e performative una volta deciso di “attualizzare” i contenuti a cui si ispira, lasciandoli sospesi in un alone di indeterminato lirismo.

Il cast in Momo è affiatato e coeso, ma patisce una recitazione priva di virtuosismi (in particolare nei ruoli chiave di Flaminia Cuzzoli e Luisa Borini, rispettivamente Momo e Cassiopea) e trova solo in Diletta Masetti – un Mastro Hora messo spesso in “disparte” dalla complicità delle due amiche del cuore – gli unici momenti in grado di compensare scenicamente con la “presenza” il carattere di un personaggio che la regia imposta sul piano più verbale che fisico.

Quello che sarebbe dovuto essere un «loop temporale» è infatti un semplice alternarsi – non troppo chiaro, ma neanche abbastanza complicato – di quanto è accaduto ai characters e di quanto sta loro accadendo. Il fardello del tempo stenta a manifestarsi e a incombere autenticamente minaccioso e ciò porta Momo a muoversi senza soluzione di continuità tra passato e presente e ad avvertire in solitudine – rispetto allo spettatore – la valenza tragica di un legame che unisce entità paradossalmente necessarie e precarie allo stesso tempo. Il dolore delle sue scelte non va oltre la presentazione di legami sentimentali interrotti, come se solo l’essere sub specie aeternitatis potesse dar valore alle esperienze della vita.

Il didascalismo testuale e la monocorde esposizione delle dinamiche tra Momo e Cassiopea (che qui non è una tartaruga, ma la sua migliore amica) e tra Momo e l’amichetto diventato fidanzato svuotano di radicalità e significato il tema dell’antitesi tra vecchio e nuovo che invece spadroneggiava nel romanzo di Ende. Questo allestimento paga un eccesso di linearità interpretativa e l’incoerenza di “usi e costumi” rispetto al futuro distopico in cui la vicenda è ambientata, mentre la riduzione delle dinamiche attoriali a scambi verbali privi di variazioni “tonali” si accompagna a una monotonia performativa che risulta disfunzionale nel promuovere l’auspicata reazione “immaginifica” in fondo agli occhi di chi guarda, così rendendo lo spettacolo ancora immaturo rispetto alla lodevole ambizione di parlare «di ciò che siamo e di ciò che siamo stati».

Lo spettacolo è andato in scena
Teatro Le Maschere
via Aurelio Saliceti 1/3, Roma

Momo e la città senza nome
ispirato al romanzo Momo di Michael Ende
scritto da Giulia Bartolini
con Matteo Berardinelli, Luisa Borini, Francesco Cotroneo, Flaminia Cuzzoli, Diletta Masetti, Daniele Paoloni
regia Giulia Bartolini
musiche Andrea Cotroneo
assistente regia Paolo Marconi
progetto speciale con il contributo della Regione Lazio
produzione Khora.Teatro