Ritratti d’Autore

Continuiamo la nostra chiacchierata telefonica con Davide Enia, la cui prima parte è stata pubblicata su https://www.inthenet.eu/2021/10/22/intervista-a-davide-enia/, e – dopo aver parlato della ragion d’essere del teatro e delle misure restrittive che sussistono e ne inficiano la valenza dal punto di vista dello spettatore, dato che:  “il dispositivo teatro… era essenzialmente il riconoscersi in una comunità tramite il contatto fisico” – affrontiamo il senso del teatro proprio dei lavori di Enia, tra autobiografismo, memoria, tradizione ed eresia.

Palermo e la Sicilia sono al centro di molte sue opere. Scelta affettiva o perché quando si scrive bisogna conoscere ciò che si affronta?
Davide Enia: «Non lo vedrei come un aut aut dato che sono vere entrambe le cose. Diciamo che più che affettiva, è una scelta che nasce alla potenza del luogo che io racconto. Sono abbastanza convinto che non tutti i luoghi al mondo si equivalgano. Esistono luoghi che hanno in qualche modo una stratificazione, una potenza, delle caratteristiche che trapassano gli individui più di altri luoghi. Alcuni luoghi sono più caratterizzanti e, in questo, credo che la Sicilia sia un unicum come isola al centro del mare più percorso nel corso dei millenni. Un mare quasi chiuso, come il Mediterraneo, dove tutte le popolazioni che vi sono affacciate sono passate per la Sicilia; e in Sicilia, c’è Palermo – che è stata fondata in tempi molto antichi – ed è uno dei luoghi, nel territorio europeo, abitato in maniera continuativa da più millenni. Indubbiamente un posto che, per usare un eufemismo, non lascia indifferenti. La mia Palermo è una città che è capace di bellezza lancinante e di ferocia bestiale. È il luogo nel quale sono cresciuto e ho giocato da bambino, nel quale ho vissuto i primi languori dell’adolescenza, in cui ho visto le prime persone ammazzate e in cui sono esplose le bombe. Questo fa di Palermo una sorta di grande enciclopedia delle sensazioni che si possono provare come essere umani; e la città stessa ti costruisce, come essere umano, dentro un contesto che è parimenti languido e violento».

La memoria è elemento portante nei suoi lavori. Quanto conta l’autobiografismo in ciò che racconta?
D. E.
: «C’è una frase molto bella che ha detto Tom Waits, ossia che, tendenzialmente, la scrittura delle canzoni (ma è qualcosa che si può applicare, secondo me, a qualunque procedimento di scrittura) è “come quando sei ubriaco e devi pisciare”. Per evitare di cadere ti appoggi a un muretto: quel muretto è la tua storia personale, la tua autobiografia, quello che hai vissuto. Perché ti impedisce di cadere nel vuoto, nel narcisismo, nella mancanza di coerenza. Hai un’aderenza rispetto a ciò che vuoi narrare. Mi sento molto vicino a questo modo di pensare quando concepisco la manipolazione spudorata dei miei dati biografici. In Maggio ʻ43 incastro storie che ho recuperato con lo sfollamento della famiglia di mia madre a Terrasini: racconto quello che succedeva a casa nostra, prendendo, smontando e riutilizzando la memoria come faccio con la tradizione. Ossia la forzo alla necessità scenica che è richiesta. Ma tutto questo, in realtà, ha a che fare con il vero senso del mio teatro e, credo, del teatro in generale. Il teatro è il dialogo inesausto tra i vivi e i morti. Il mio lavoro è una tensione che cerca di risanare questa frattura facendo dialogare vivi e morti. E adesso che è morto anche Paolo Rossi, se riprenderò Italia-Brasile 3 a 2 questa cosa risulterà ancora di più. Il teatro riesce a creare questo dispositivo per cui si dialoga con i morti. Ognuno di noi ascolta le voci di quelli che non ci sono più e, in qualche modo, aprendo la forbice si dialoga con quelli che dovranno ancora venire. Il teatro è questa cosa qui – non è altro».

In Maggio ʻ43 si nota l’ascendenza dai cuntisti. Cosa pensa di tale tecnica di narrazione tradizionale?
D. E.: «Non ho mai lavorato con i cuntisti ma ho intuito che avevo dentro questa cosa. Mi definirei un cuntista completamente eretico rispetto a quello che era il modo di cuntare un secolo fa o che usano altri, e francamente sono abbastanza orgoglioso di questa mia eresia nella maniera in cui ho ritrovato una modalità di arrivare al cunto che è a partire dal mio corpo – e appartiene a me, alla mia capacità di costruire immagini. Quindi, questo tradire la tradizione, in realtà, è un’operazione di grande riunificazione e rispetto. La tradizione ha la radice del verbo tradire dentro di sé. Vuol dire trovare qualche cosa e portarla, spostarla e, nel momento in cui la si fa riaffiorare da questo fiume, modificarla anche – secondo esigenze precise. Per me, il cunto è uno strumento musicale, un vocabolario. Se avessi voluto fare il filologo, lo avrei fatto. Il cunto ti dà la possibilità di lavorare sull’apertura del suono tramite una partitura ritmica, in cui si perde il senso preciso di quello che si va raccontando, ampliando però la percezione della storia perché si è travolti dai significanti dei suoni, rendendo così attivo lo spettatore che deve ricostruirsi – tramite quel poco che riesce a comprendere – tutto quello che sta succedendo e, quindi, lo fa in qualche modo suo. È un modo, il cunto, anche abbastanza smaccato, di depotenziare il cuntista stesso, di depotenziare l’artista e di stabilire una sorta di orizzontalità con tutte le persone che stanno osservando il cunto e, in ultimo, è un momento in cui si entra in contatto con i morti. Là torniamo». 

La guerra, con Maggio ʻ43, ma anche l’emigrazione, con L’abisso. La storia degli ultimi. Una marea di voci che, ne L’abisso parte dalle testimonianze che ha raccolto a Lampedusa. Ci racconta quest’ultima esperienza? Come mai ha scelto un approccio quasi documentaristico per poi scrivere il testo?
D. E.
: «Ero andato a Lampedusa per capire cosa vi succedesse perché Lampedusa è, comunque, parte della mia Sicilia e con me, infatti, i lampedusani parlavano in dialetto. Questo è stato il grande elemento di comprensione, che poi mi ha dato la possibilità di una narrazione – perché, nel momento in cui venivano meno le loro parole e si abbandonavano al silenzio, io quel silenzio lo conoscevo perché è il medesimo nel quale sono stato strutturato come essere umano: il silenzio narrativo, figlio del linguaggio che impariamo in Sicilia. D’altronde credevo, speravo, di avere esaurito tutto con il romanzo, Appunti per un naufragio. Erano anni che non scrivevo più per il teatro e non volevo più farlo. Evidentemente non avevo creato la necessaria distanza tra me e i fatti che mi avevano trapassato con la stesura del romanzo, e ho avuto bisogno di rinominare tutto tramite l’altro linguaggio che adopero, che è quello della scrittura che si fa carne in teatro – lasciando spazio alla parola che fallisce, al corpo che si consegna al silenzio, facendo un percorso volutamente performativo nel quale, in ogni replica, provo a rimettermi nello stato emotivo di chi sta nominando le cose per la prima volta – come l’attore santo di Grotowski. Questo ha segnato un ritorno al teatro e anche la comprensione di cosa sia questo dispositivo strano, dacché con L’abisso succedevano cose che non erano preventivabili – come 300 o 400 persone che si fermavano dopo lo spettacolo in un’estensione dello stesso, per parlarne. Era la percezione chiara che ci riconoscevamo parte di una comunità che ragionava, affrontava, ascoltava le urgenze di questo presente – mentre è chiaro che la qualità di una comunità, e di una persona, si vede proprio dalla qualità della risposta che dà rispetto all’urgenza che le si pone di fronte. Alla fine, i temi sono sempre i miei, perché io ho abitato una città, mi sono formato e tutto quello che ho visto da bambino aveva a che fare con la guerra: Palermo aveva ancora i segni dei bombardamenti, la Mafia sparava per strada, il clima era abbastanza violento e c’era chi provava a metterti continuamente i piedi in testa. Emotivamente ho preso una posizione: mi sono messo da una parte della barricata e, dalla mia parte, ci stavano gli oppressi, quelli che prendevano i calci in bocca. Li ho sentiti fratelli fin da bambino. Tanti hanno fatto come me questo percorso, e altri sono andati dalla parte opposta della barricata. Per tornare alla prima domanda, la città è stata parte essenziale della costruzione dell’immaginario, e delle decisioni che ho preso su quale essere umano diventare». 

Lei dovrebbe riportare in scena Italia-Brasile 3 a 2 (del 2002). Per quali ragioni in questo momento?
D. E.
: «Ve ne sono diverse. L’anno prossimo ci saranno i Mondiali e saranno passati quarant’anni dall’82 (quando si tenne quella partita) e venti dal debutto dello spettacolo. Il motivo spudoratamente egoistico è, però, che dopo L’Abisso ho bisogno di fare uno spettacolo felice. Ne ho bisogno io; ma, dato che stiamo andando incontro a una gravissima crisi sociale, ci sarà bisogno collettivamente di uno spettacolo che dia un senso di gioia e di appartenenza, e che ridia senso al patto sociale che è venuto a frantumarsi in questi giorni. E questo tipo di lavoro penso abbia le qualità per assolvere a questi compiti anche perché è uno spettacolo che, tendenzialmente, spero di fare il più possibile non in teatro proprio per questo mio profondo dissenso rispetto a come si sta gestendo la situazione pandemica per quanto riguarda lo spettacolo dal vivo». 

Nella foto: Davide Enia in Maggio ʻ43, © Giuseppe Distefano (gentilmente fornita dall’Ufficio stampa de La Città del Teatro)