Arte totale

All’Auditorium Parco della Musica, è il momento di Aurora Boreale, focus sulla Scandinavia presentato da Equilibrio Festival a chiusura del programma triennale iniziato nel 2017 con la Germania e proseguito lo scorso anno con la Francia (Les nuits barbares, ou les premiers matins du Monde, Sarabande – Critical Mass – Steptext.

Quello relativo al controverso rapporto tra Ulisse e le Sirene è uno tra i più affascinanti, oltre che indagati, miti che la cultura classica ha dato in eredità al pensiero occidentale.

Variamente interpretato ad antipodi che vedono l’eroe exemplum di illuministica virilità mista a razionalità o di bieco maschilismo, da Omero a Dante, da Cicerone a Kafka, fino a Brecht e ai massimi esponenti della Scuola di Francoforte, è praticamente inutile provare a individuare un excursus completo delle interpretazioni, a volte sconvolgenti fino all’inverosimile, del celebre episodio di cui fu protagonista Ulisse, figura fondativa della società e dell’individualità europea.

Ma non è affatto la sua astuzia a interessare il Siren della compagnia capitanata da Pontus Lidberg (in scena anche come performer), la cui scelta di una decisa divergenza dalla figura canonica rappresenta una prima affascinante intuizione culturale, ancor prima che artistica.

Lidberg, con il decisivo contributo alla drammaturgia di Adrian Guo Silver, non appare interessato a indagare l’oltrepassamento della mentalità mitica nella riflessione razionale operato nel momento in cui Ulisse decise di affrontare le sirene con la propria proverbiale astuzia (accettandone il canto, ma neutralizzandone gli effetti negativi) e, anzi, mette in guardia da una siffatta possibilità.

Descritta come libera rilettura, l’operazione Siren, pur non esente da perplessità esecutive, convince per l’audacia con cui conserva lo strato più arcaico del mito e, allo stesso tempo, volge lo sguardo con efficace limpidità verso questioni strettamente contemporanee sia nell’intenzione, sia nell’utilizzo di una riuscita sintesi di stilemi coreutici, teatrali e multimediali, di cui dissolve l’ordine gerarchico delle grammatiche nella forma essoterica di una rappresentazione non sempre spettacolare, ma comunque intellettualmente appagante.

La scena si apre con una immagine che tradisce la principale sfumatura di grigio di Siren, ossia un eccesso di semplicismo – ai limiti del didascalico – nella scelta di alcune soluzioni scenografiche e coreutiche.

Sarawanee Tanatanit è immersa in una vasca d’acqua. Ne fuoriesce con vesti smeraldo fradice, così restituendo una suggestiva sensazione di costrizione fin dal passo a due con Lidberg, dalla cui esibizione di fascino sembra inizialmente farsi condurre e guidare. Stefan Levin stratifica la loro esecuzione contaminando un evocativo disegno «di strumenti acustici mescolati a suoni urbani sintetizzati» con la Sonata per pianoforte No. 18 di Franz Schubert, mentre l’ingresso degli altri danzatori potenzia la sensazione di un dominio patriarcale che accompagna lo sviluppo della coreografia. Ma, attraversato un mare sublimato prima in un lenzuolo utilizzato a mo’ di vela di nave, poi nello strepitoso innesto filmico di un viaggio tempestoso proiettato sullo stesso lenzuolo, qualcosa di questo equilibrio a senso unico (con la donna martire predestinata) inizia a incrinarsi.

La Sirena sta vestendo gli stessi abiti maschili, ne segue e imita la gestualità, le angolature aspre delle braccia e delle gambe, ma i corpi adesso cadono e si rialzano, pulsano di continuo, ritmicamente, agitati da un fremito sconosciuto. Tutti gli interpreti, Lidberg compreso, ormai omologato agli altri compagni, appaiono sconvolti dallo svanire di ciò che era stato dato per scontato, da un’ossessione che paradossalmente svanisce, da un desiderio di possesso che, raggiunta la climax, si scopre non appagato, ma sull’orlo del baratro.

Il palcoscenico è adesso popolato dall’esposizione del mondo interiore dei vari personaggi, la spontaneità è consapevolmente inficiata da movimenti e posture che Lidberg non vuole mai pienamente rotonde, piene e fluide.

Se il maschio, Ulisse o chi per lui, pensava di rappresentare colui che fa la storia, la Sirena non si accontenta più di esserne strumento, un limite fittizio da superare per lasciarne affermare (di lui) la volontà di potenza. L’eroe che prima non si piegava all’impossibilità di sentire il canto delle sirene ed era disposto ad autolimitare la propria libertà pur di sottometterla (almeno idealmente), adesso soccombe alla consapevolezza con cui lei lo attira a se come null’altro.

Comunicata in maniera piana e comprensibile la propria reinterpretazione del mito, Siren paga, probabilmente, una troppo pacata emotività e alcune sbavature, tuttavia, nel raccontare l’incontro, la scoperta, la diffidenza, l’abbandono e il ritrovarsi prima del definitivo compiersi della tragedia che lacera i protagonisti, si esalta per un uso unico e inedito di elementi teatrali e multimediali al servizio della narrazione coreografica. E, nonostante alcune ridondanze appesantiscano la fruizione, il montaggio – cinematografico per come combina elementi visivi e partitura dei movimenti – realizza un progetto drammaturgico e coreutico omogeneo e di assoluta liricità.

Nella danza dialettica di Siren ogni momento discende da quello precedente e ripiega in quello che segue, per così insediare nel loro collegamento un intimo senso di colpa e la titanica lotta contro chi pretenderebbe di rendere universale e ineluttabile, dunque naturale, una condizione culturale: la sottomissione di chi, volente o nolente, nella recita della vita si è sempre vista assegnare la parte della vittima. Ma non è una semplice questione di genere a pulsare entro lo spirto di Siren perché ad agitarne la messa in scena è qualcosa di ben più profondo e autenticamente concreto.

I rapporti individuali che circondano e minacciano da ogni parte la Sirena sono inscritti in ogni figura e in ogni movimento; sono norme archetipiche fatte di divieti e di concessioni contro cui l’essere umano tenta di non cadere in balìa e che non si possono sfidare ingenuamente per come individuano emozioni e stati d’animo («il desiderio, la creatività e, inaspettatamente, la solitudine», corsivo dalle note di regia). La Sirena e i suoi uomini, sia il princeps che la corteggia, sia il branco che la insidia, si stringono in un duello in cui il ruolo di vittima e carnefice si pretende prestabilito (a sfavore della prima), ma che si rivela essere tutt’altro che scontato. Lei, al principio docile e minuta, solo in apparenza sembra soggiogata dalla forza di chi la circonda e pensa di concupirla con il proprio potere superiore: in verità, sarà lei a brandire, come palesato dal romantico finale, l’arma della vera astuzia, fingendo di porgere ascolto ai maliardi e alle illusioni che stavano minacciandone la libertà. Non importa quanto sia stata forte la volontà mista a intelligenza di lui/loro, ogni resistenza sarà inutile per chi pretende di imporre sottomissione a chi dovrebbe, in una distorta e disumana visione della realtà, essere null’altro che oggetto fatale.

E che la storia possa (o debba) cambiare direzione, lo induce a pensare il rovesciamento totale del finale con lo scambio di ruoli tra Sarawanee Tanatanit e Pontus Lidberg; momento nel quale, concluso il loro ultimo stare insieme, Siren realizza un mutamento radicale di prospettiva, lasciandola finalmente padrona e artefice, magari spietata, del proprio destino.

Lo spettacolo è andato in scena all’interno di equilibrio
Auditorium Parco della Musica

via Pietro de Coubertin, 30 Roma

Siren
coreografia Pontus Lidberg
danzatori Pontus Lidberg, Lucas Threefoot, Stefanos Bizas, Joe George, Sarawanee Tanatanit, Nathanael Marie, David Lagerqvist
costumi Karen Young
musica Stefan Levin, Franz Schubert
drammaturgia Adrian Guo Silver
direttore delle prove Ola Beccau, Patricia Seron Pawlik
luci Raphael Frisenvænge Solholm
coprodotto da Danish Dance Theatre, Pontus Lidberg Dance, Festival Oriente Occidente, Stavros Niarchos Foundation Culture Center attraverso una sovvenzione esclusiva della Stavros Niarchos Foundation
con il generoso supporto di Rockefeller Brothers Fund, SHS Danish Dance Theatre Foundation, Evelyn C Sharp Foundation, Mid Atlantic Arts Foundation, Charles and Joan Gross Family Foundation