Stabat Mater et Peer Gynt

Con una serata commovente e particolarmente riuscita, la cappella della Trinità di Lione ha celebrato il trentesimo anniversario dei Siècles Romantiques di Jean-Philippe Dubor grazie ad un programma dedicato al Peer Gynt di Grieg e allo Stabat Mater di Gouvy

Il 2021 è l’anno del trentesimo anniversario dei Siècles Romantiques, ensemble musicale voluto e diretto da Jean-Philippe Dubor, che nel corso degli anni ha permesso la riscoperta di opere dimenticate del repertorio romantico, oltre a splendide serate dedicate ai grandi maestri di questo periodo. Divisa in due parti, marcata da un brevissimo entracte, la serata del primo dicembre ha visto prima rievocare le polimorfe e celeberrime musiche del Peer Gynt di Grieg ed, in seguito, quelle maggiormente dedite ad una riflessione drammatica e religiosa dello Stabat Mater di Gouvy. Il direttore artistico Jean-Philippe Dubor ha motivato la scelta di questo accostamento parlando di “un’associazione obbligata” dovuta alla lunga amicizia che legò i due musicisti dal fortuito incontro a Leipzig nel 1865 e che si concluse solamente con la morte di Gouvy nel 1898.

La storia che si cela dietro alle Suite 1 & 2 di Grieg è assai curiosa e vale la pena di rievocarla. Henrik Ibsen scrisse il suo Peer Gynt nell’estate del 1867 tra Casamicciola, sull’isola d’Ischia, e Sorrento. L’opera, proprio a causa dell’accoglienza assai fredda che i compatrioti le riservarono, divenne l’agone nel quale il drammaturgo scese con tutte le sue forze, lavorando con acredine per il suo riconoscimento. Nel 1874 Ibsen decise di farne un adattamento teatrale e chiese a Edvard Grieg, il maggiore compositore norvegese dell’epoca, incontrato qualche anno prima a Roma, di comporre le musiche di scena. Il compositore terminò la composizione l’anno successivo e, finalmente, il 24 febbraio 1876, nel Christiania Theater di Oslo, andò in scena l’adattamento teatrale con un grande successo di pubblico. Grieg, inizialmente dubbioso ma pur sempre lusingato dalla richiesta di Ibsen, iniziò ad appassionarsi alla propria musica, apponendo modiche e cambiamenti ad ogni successivo adattamento. Nel frattempo le musiche iniziarono ad acquistare una loro indipendenza tale che, dai 26 brani iniziali, si giunse nel 1888 e nel 1893 alla definizione di due suite indipendenti composte ognuna da quattro brani (che non seguono cronologicamente le avventure di Peer) diventati in seguito melodie celeberrime e utilizzate come colonne sonore di opere cinematografiche e di numerose pubblicità.

Al mattino, che all’origine rappresentava l’introduzione del quarto atto della pièce, è, citando lo stesso Grieg “pura musica”. Entrata delicatissima in medias res, questo movimento rappresenta un capolavoro di embricazione musicale, dove gli strumenti si raggiungono gli uni dopo gli altri, in un vorticoso movimento che, senza dubbio, Ravel ebbe in mente quando, mezzo secolo più tardi, stava lavorando al suo Bolero. Questa estetica stratificata diviene la struttura portante e solida a fronte di una soavità globale. La morte di Ase rappresenta un repentino cambio di registro, dove gli archi dipingono larghe campiture di sentimenti mesti e afflitti. Le tonalità volgono ad una maggiore intensità e profondità di campo, che siano esse maestose nell’evocazione della morte o fragili di fronte al ricordo oramai destituito d’ogni legame con la triste realtà. La Danza di Anitra è un delizioso intermezzo dove la figlia di un beduino si lancia in una danza per l’appagato Peer. Pizzicato chiarissimo e largo respiro degli archi, insieme ad un triangolo particolarmente presente, definiscono con puntualità questo breve brano prima di portarci Nell’antro del re della montagna, che vede impegnata tutta l’orchestra in un tempo sempre più accelerato e incalzante che combina tensione, curiosità, paura, timidezza, boria, energia in un crescendo che Jean-Philippe Dubor dirige con forza e passione.

La Seconda Suite si apre con Il ratto della sposa, Lamento di Ingrid, dove la contrapposizione violenta delle due voci di Peer e della sposa sedotta e abbandonata, è incarnata dalle urla rabbiose delle trombe da una parte e dagli archi supplicanti e disperati dall’altra. Segue poi una Danza araba che segue l’ideale di quella di Anitra della Prima Suite, insistendo maggiormente su una gioia esotica e leggerissima. Il Ritorno di Peer Gynt è raccontato dallo stretto dialogo tra gli archi che incarnano le onde del mare e gli ottoni e i legni che sezionano il continuum della traversata con la verticalità dell’evento puntuale, sia esso reale, immaginario o puro souvenir. La seconda suite si chiude con la melanconica Canzone di Solveig, incentrata sull’unica depositaria del vero amore di Peer, fedele e paziente. Canto d’amore puro, il brano si sviluppa su due registri separati e in continuo dialogo. Un primo, più greve che si sviluppa su di una verticalità terra/cielo e che mette in contatto amore e morte, luogo natio e mondo celeste, e un secondo, più lieve che danza su di un’orizzontalità che incrocia la precedente direzionalità non per negarla ma per destituire la morte d’ogni possibile limitatezza che essa potrebbe imporre.

Partitura assai difficile, che tocca le cime di una grande opera grazie alla sua ricchezza armonica, ritmica e melodica, lo Stabat Mater è un lavoro particolarmente affascinante e la scelta di presentarlo come contraltare del Peer Gynt più che rappresentare una sfida, appare una scelta azzeccata, da un lato per introdurre una componente più cristiana dopo il paganesimo edonistico della prima parte, e dall’altra per mostrare un altro volto della musica romantica, complementare e non alternativo.

Prussiano di nascita, venuto alla luce nel 1819 a Saarbrücken (città francese fino al Congresso di Vienna e al seguente Trattato di Parigi del 1815), Louis Théodore Gouvy ottenne la nazionalità francese solamente all’età di 31 anni, dopo aver abbandonato gli studi di diritto in Francia. Consacratosi interamente alla musica e alla composizione, Gouvy rimane oggi, purtroppo, un compositore ancora troppo poco conosciuto e studiato. Un motivo in più per apprezzare il lavoro di riscoperta intrapreso da Jean-Philippe Dubor, autore di quattro creazioni lionesi dedicate a questo compositore: il Requiem nel giugno 2011, lo Stabat Mater nel 2012, la Messe breve nel 2013 e la Quarta Sinfonia nel 2014.

L’introduzione dello Stabat Mater dolorosa è celestiale e rappresenta una messa in situazione di grande effetto. L’orchestra dipinge il fondo patetico della scena mentre il coro, ed in particolar modo quello femminile, descrive la stasis della Vergine di fronte al figlio crocifisso e morente, vittima dell’assurdità della giustizia umana e sacrificio necessario per la salvazione dell’umanità intera. La voce del soprano Vanessa Bonazzi è stasera particolarmente chiara e calorosa, di un bell’equilibrio toccante. Con il Quis est homo ritroviamo il nostro Karl Laquit, tenore che abbiamo il piacere di seguire da tempo e che non perderemo occasione di seguire nei ruoli che i prossimi anni gli riserveranno. I suoi interventi, questa sera, conquistano per il sapiente utilizzo dell’equilibrio vocale e per una pacificazione armonica commovente. Egli incarna pienamente la voce che interroga l’umanità sull’impossibilità dell’afflato empatico (Quel est l’homme qui ne pleurerait/s’il voyait la Mère du Christ/dans un si grand supplice ?/ Qui pourrait ne pas s’affliger/contemplant la mère du Christ/souffrant avec son Fils ?). Delicatissimo, quasi intimidito di fronte alle parole di Jacopone da Todi, egli depone ogni tono intrepido e ardito per consacrarsi ad un lavorio vocale di matrice pittorica, à la Pinturicchio. Un atteggiamento compassato, pesato, in grado di meravigliare gli estimatori e di far innamorare i neofiti. L’Eia Mater è, à la fois, rispetto della forma antica e vestita di un abito moderno, prettamente romantico. La sacertà è passionale (Madre, sorgente d’amore) ma è  in grado di giungere alle sommità dell’epica grazie al maestoso apporto corale sul quale il direttore Jean-Philippe Dubor ardisce con energico rigore per posare i contrafforti della cattedrale della composizione gouviana. Con il Fac me tecum pìe flere ritroviamo Bonazzi che si dimostra elegante come sempre, questa sera particolarmente impegnata ad un trattamento delicatissimo dei passaggi, delle transizioni, lavorando a un alleggerimento delle note lunghe che, pur mantenendo la loro natura, appaiono più leggere e celesti. Fac, ut portem Christi mortem è magnificato dalla voce del mezzosoprano Alice Didier che raggiunge alla perfezione l’intento degli altri due solisti della serata. Anche in questo caso la misura è la parola d’ordine e l’invocazione per la protezione del Cristo e della Santa Croce si esaudisce in un canto puntuale e per nulla ditirambico. Il Quando corpus conclude la composizione di Gouvy con una musica ondeggiante che dona una leggerezza inusitata a questa preghiera musicale. Il finale, grazie allo stretto dialogo tra i due cori e i solisti, e all’incedere quasi per tocchi, alleggerisce la gravità della tematica convogliando l’attenzione sulla speranza, sulla “gloria del Paradiso” indicata dalle ultime parole.

Quello che conquista maggiormente è la grande organicità dell’ensemble, specialmente nella seconda parte della serata. Jean-Philippe Dubor governa l’arte della direzione con eleganza e passione. Tutto si lega alla perfezione, tutto si cerca e si trova, si riconosce e giunge, insieme, al conseguimento dell’obiettivo comune. Il coro, simbolo di grandiosità, ha sempre rappresentato per il direttore lionese il nobile cuore dei suoi concerti. E questa sera, senza ombra di dubbio, abbiamo assistito ad uno dei più intensi e meglio riusciti concerti che egli ha regalato al suo pubblico in trent’anni di Siècles Romantiques.