Plastic Reality

Per inaugurare la 27esima edizione del Festival delle Colline Torinesi, quest’anno dedicata ai «confini/sconfinamenti», la compagnia catalana El Conde de Torrefiel offre un viaggio al centro dell’immaginazione, per cercare con il suo Una imagen interior una «alternativa radicale alle finzioni e alle immagini che ci governano».

«La parola “realtà”, un termine di un certo rilievo ma che risulta sempre più difficile da cogliere, fa la sua comparsa relativamente di recente nel linguaggio umano, poco più di 1000 anni fa. I greci non avevano un termine per descrivere questa condizione e l’esistenza individuale e collettiva erano regolate dalla logica fantastica dei miti: racconti costruiti tramite un processo che articolava le forze che nascono dall’interno e la cui immagine straordinaria produceva un effetto concreto sulle coscienze affinché queste potessero orientarsi nella vita materiale. L’origine della parola “realtà” viene fatta risalire all’antico Impero Romano, dove veniva utilizzata per definire le più svariate forme di cose e azioni che esistevano veramente, fino a trovare spazio, negli anni, all’interno del campo semantico di ciò che al giorno d’oggi definiamo come “il reale”. È dalla logica di un popolo con vocazione d’impero che nasce dunque la necessità di un’imposizione dell’essere».

È con queste parole e questa concezione costruttivista del reale che la compagnia catalana El Conde de Torrefiel introduce la sua ultima creazione, Una imagen interior, debuttata al Wiener Festwochen di Vienna nel maggio scorso e presentata in prima nazionale al Teatro Astra in occasione dell’inaugurazione della 27esima edizione del Festival delle Colline Torinesi organizzato da TPE – Teatro Piemonte Europa. Nata da un lungo processo di ricerca scenica sul concetto di “ultrafinzione” e figlia anagrafica di un mondo post-pandemico in cui il peso della frontiera tra realtà e finzione si sta facendo via via più insopportabile, l’immagine interiore prodotta dal duo catalano composto da Tanya Beyeler e Pablo Gisbert tenta di analizzare quell’accumulo di finzioni prodotte dall’attività umana che assurgono alla categoria del reale, benché non lo siano.

Rifacendosi con squisito gusto estetico e un più banale formalismo retorico alla trita e ritrita caverna platonica, Beyeler e Gisbert invitano il pubblico a immergersi per 90 minuti in un irreale teatrale dove il testo in soprattitoli detta il ritmo (e il pensiero, come già notato in Se respira en el jardín como en un bosque), mentre i sei corpi in scena soccombono all’«egemonia della parola», sospesi all’interno di un copione che sfonda qualsiasi parete scenica. Così come in Guerrilla la tradizionale divisione tra platea e palco veniva sin dal principio negata attraverso la specularità delle azioni che vi prendevano piede (ingresso e presa di posto degli spettatori ripetuto dall’ingresso e presa di posto dei performer), così anche in Una imagen interior lo spazio drammaturgico impone già da subito una messa in discussione della forma (e formalità) del Teatro.

L’Io narrante, infatti, spezza quella sospensione di incredulità che sta alla base del gesto drammatico, dichiarando con le proprie prime parole che «quando comincia un’opera teatrale, il pubblico sa bene che quello che accadrà in scena è una menzogna. Tutto quello che vedrà è una finzione, […] una messa in scena». Muovendo quindi una lenta esegesi del reale-come-finzione strutturata in tre “capitoli” ben definiti da altrettante scenografie, lo spettacolo declina le sue intenzioni comunicative a partire da un grande telo bianco che viene didascalicamente issato nella scena vuota da due solerti tecnici. Ha così inizio un’estenuante catabasi nelle velleità di profondità filosofica de El Conde de Torrefiel i quali, attraversando tre diversi “santuari” della percezione postmoderna della realtà (un museo di storia naturale, un supermercato e la summenzionata caverna), articolano una decostruzione a tratti provocatoria a tratti soporifera dell’esperienza che l’Uomo fa della Natura.

Se già si erano tessute le lodi, su queste stesse pagine, della talentuosa e visionaria compagnia catalana, infatti, è altrettanto vero che ne erano stati identificati anche i limiti, che qui tornano ancor più marcatamente. Come osservato ancora una volta per Guerrilla (dove l’inferno della guerra veniva presentato «così com’è», «senza presa di posizione, […] in una sorta di autocompiacimento, di voluttà del male»), anche l’ultima creazione de El Conde de Torrefiel non lascia spazio ad alternative, offrendo un’analisi unilaterale (e a tratti arrogante) della Realtà che non offre non tanto un pur sempre aborrito “lieto fine”, quanto perlomeno un riconoscimento di forme altre (non occidentali, non postmoderne) di percezione del reale.

Evocando dapprima un tempo preistorico in cui l’umanità non aveva ancora prodotto i dogmi e le gerarchie delle narrazioni religiose, nazionalistiche e identitarie (in odore di un ben mainstream Harari), infatti, il testo si lancia in un attacco contro la parola, qui vista in termini unicamente utilitaristici e categorizzanti, e il pensiero, vero responsabile della miseria esistenziale contemporanea. Una imagen interior sceglie così di ignorare completamente il potere cosmogonico del verbo e quello liberatorio della ragione, invocando in modo non troppo velato un ritorno alla ritualità “animalesca” dell’hic et nunc per far fronte a un’Antropocene comunque sempre più apocalittico. Per la maggior parte dei 90 minuti di spettacolo, dunque, il duo Beyeler-Gisbert non riesce a offrire altro che una banale passeggiata tra luoghi comuni, dove il pensiero non viene stimolato, la sorpresa non ha casa e l’attenzione del pubblico implora pietà, martoriata com’è da una pioggia di concetti e autori/rici di prestigio che rimangono incastrati in un solipsistico name-dropping intellettuale, mentre sulla scena i movimenti passano quasi del tutto inosservati.

Ed è un peccato, perché se c’è una ricerca di espressione artistica veramente efficace nell’opera de El Conde de Torrefiel, questa risiede nel disegno luci di Manoly Rubio García, capace di tradurre in “realtà” tutta l’intenzione onirica del testo, innalzando a opera d’arte iridescente anche il più volgare degli innumerevoli teloni di una scenografia plastica e aggressiva che, con un senso estetico sospeso tra l’erotismo di velluto di David Lynch e la sessualità voyeuristica di Gaspar Noé, sottolinea, in modo forse pleonastico, l’artificialità e la falsità del reale.

Lo spettacolo è andato in scena all’interno del Festival delle Colline Torinesi 27
Teatro Astra
via Rosolino Pilo 6 – Torino
martedì 11 ottobre 2022, ore 21:00
mercoledì 12 ottobre 2022, ore 19:00

la Fondazione Piemonte dal Vivo presenta
Una imagen interior
di El Conde de Torrefiel

ideazione e creazione El Conde de Torrefiel
in collaborazione con Tanya Beyeler, Pablo Gisbert
testo di Pablo Gisbert
con Gloria March, Julian Hackenberg, Mauro Molina, David Mallols, Anaïs Doménech e interpreti locali
scene e costumi Maria Alejandre, Estel Cristià
sculture Mireia Donat Melús
robot design José Brotons Plà
macchinista Miguel Pellejero
light design Manoly Rubio García
sound design Rebecca Praga, Uriel Ireland
scenografi Diego Sánchez, Los Reyes del Mambo, Isaac Torres, Miguel Pellejero
direzione e coordinamento tecnico Isaac Torres Sound
produzione e amministrazione Haizea Arrizabalaga
una produzione esecutiva CIELO DRIVE
distribuzione Caravan Production, Brussels
con il supporto di ICEC – Generalitat de Catalunya, TEM Teatre Musical de Valencia, Centro Párraga de Murcia
una coproduzione Wiener Festwochen (Vienna), Festival d’Avignon, Grec Festival (Barcelona), Conde Duque (Madrid), Kunstenfestivaldesarts (Brussels), Le Grütli – Centre de production et de diffusion des Arts vivants (Geneva), TPE – Teatro Piemonte Europa/Festival delle colline Torinesi (Torino), Points communs – Nouvelle Scène nationale de Cergy-Pontoise – Val d’Oise, Festival d’Automne à Paris, La Villette (Parigi).